Le ricette evoluzionistiche del giovane Spencer

Ci si è dimenticati che in passato il liberalismo si ergeva abitualmente a difesa dell'individuo dalla coercizione dello Stato

23 Dicembre 2016

Diego Gabutti

Argomenti / Teoria e scienze sociali

C’è una ragione se le moderne società liberali, nate da una rivoluzione culturale che prometteva d’affrancare l’umanità dal giogo dei re e dei tiranni, hanno mostrato nell’ultimo secolo comprensione e persino ammirazione per il Terrore “esotico”, ieri per il leninismo e oggi per l’Islam: il liberalismo, che all’origine era una dottrina antistatalista, ha finito per convertirsi alle ragioni dello Stato, e non gli sembra più così strano e forse neppure così biasimevole il dispotismo della caserma teocratica e socialista.

Direttore dell’Istituto Bruno Leoni, liberale o meglio libertario senza debolezze politically correct, Alberto Mingardi esplora le derive del liberalismo nell’introduzione a un testo di Herbert Spencer, L’uomo contro lo Stato (Liberilibri 2016, pp. 296, 20 euro). Spencer, che fu uno dei sostenitori più entusiasti dell’Evoluzione della specie, di cui applicò con entusiasmo le ricette evoluzionistiche alle “scienze sociali” è stato liquidato come un ingenuo campione dell’idea di “progresso”: la faccia pacifista, anarchica, individualista e antimilitarista del “darwinismo sociale”. Più di cent’anni dopo la sua morte, a Spencer non sono rimasti molti lettori. Mingardi, tra i pochi, gli ha dedicato prima una robusta monografia in lingua inglese (Herbert Spencer, New York-Londra, Continuum 2011) e adesso questa brillante glossa a margine dell’Uomo contro lo Stato.

Il filosofo di cui Mingardi esplora le idee e racconta la storia è uno Spencer moderno, nostro contemporaneo, che ha del “progresso” un’opinione alta e matura. È l’uomo che prende la parola per evocare l’utopia liberale d’un mondo in cui non c’è posto per guerre, gabellieri, sbirri onnipotenti, autorità e obbedienze. Spencer prende partito per la società illuminata dei mercati, del diritto e della libertà di vivere senza padroni perché, come scrive, «se ciascuno è libero di fare ciò che vuole a patto di non violare l’eguale libertà d’ogni altro uomo, allora è libero d’interrompere il rapporto con lo Stato, di rinunciare alla sua protezione e di rifiutare di pagare per il suo mantenimento».

Testimone, in giovinezza, dell’ascesa del liberalismo a bandiera della società industriale, quando il pensiero liberale era la dottrina che aboliva la schiavitù e sponsorizzava le lotte sindacali, ne testimoniò alla fine anche il tramonto, quando l'”oro puro” del liberalismo (come diceva Marx delle dottrine dell’Internazionale) si trasformò in “carbone” d’interventismo statale, conservatorismo, imperialismo e perbenismo burocratico. Sempre più Stato, sempre più deleghe, sempre più leader infallibili.

«Non ci si ricorda più», scrive Mingardi, di quando gli ingenui libertari come Spencer provocarono tutti quei «cambiamenti autenticamente liberali che hanno ridotto nella vita sociale la cooperazione obbligatoria e accresciuto quella volontaria. Ci si è dimenticati che, per un verso o per l’altro, questi cambiamenti hanno ridotto il perimetro dello Stato e ampliato lo spazio nel quale ogni cittadino può agire liberamente. Ci si è dimenticati che in passato il liberalismo si ergeva abitualmente a difesa dell’individuo dalla coercizione dello Stato». L’uomo contro lo Stato è il promemoria che ci ricorda la grandezza del liberalismo giovane.

Da Corriere della sera, 23 dicembre 2016

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