La “verità” del tycoon sdogana l’antiscienza

La libertà di scienza viene minacciata da un ordine che vuole imporre obblighi e condizioni a chi la deve condurre e interpretare

30 Maggio 2025

La Stampa

Serena Sileoni

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Con un ordine esecutivo del 23 maggio, Trump ha imposto una serie di direttive in larga misura condivisibili sulla ricerca scientifica. La Gold Standard Science dovrà essere un po’ come la buona scienza: replicabile, trasparente, comunicativa di errori e incertezze, collaborativa e interdisciplinare, strutturata per verificare l’attendibilità delle ipotesi, sottoposta a oggettivi metodi di revisione, capace di accettarci risultati negativi, senza conflitti di interessi.

Eppure ci sono almeno tre motivi per credere che non sia tutto oro quel che luccica. Il primo attiene alle ragioni, il secondo agli obiettivi, il terzo ai dettagli. Partendo dai dettagli, l’ordine pare possa applicarsi non solo alle agenzie federali, ma più in generale a tutti coloro che prendono soldi pubblici per la ricerca, quindi anche le università. I criteri, poi, sono meno innocui di quel che sembrano, in particolare quello della peer review imparziale. Ma sono le ragioni e gli obiettivi che meritano attenzione. Le prime sono ricavabili dalla premessa dell’ordine, che denuncia una crisi di fiducia nei confronti della scienza a cui avrebbe contribuito il governo Biden. Si citano le linee guida sul contenimento del Covid, le decisioni su pesca e protezione delle specie marine, gli scenari climatici e in generale, “le azioni prese dalla precedente amministrazione” che hanno “ancor più politicizzato la scienza, incoraggiando le agenzie federali a promuovere diversità, uguaglianza e inclusione in tutti gli aspetti di pianificazione, esecuzione e comunicazione delle ricerche”. Nessuna persona dotata di senno potrebbe pensare che i risultati della ricerca sono sempre corretti. Anzi, la scienza, per definizione, procede per tentativi ed errori. A questo serve l’accessibilità dei dati, la verifica degli studi, la trasparenza del metodo e la condivisione. Chi fa ricerca lo sa, come sa che essa può essere tutelata dalla sua fallibilità intrinseca solo attraverso procedure trasparenti e rigorose. Se accade che le informazioni di scienza siano usate impropriamente, il problema non è l’indagine scientifica, ma l’uso che ne viene fatto, fino all’accreditamento di risultati che, percome sono stati raggiunti, non dovrebbero dare garanzie di affidabilità.

E veniamo agli obiettivi dell’ordine, che sono assicurare che le decisioni prese a livello federale siano basate su un’evidenza scientifica che sia la più credibile, imparziale e affidabile possibile. Un obiettivo comprensibile, che non ha a che fare con la validità del metodo scientifico, ma con l’uso che dei suoi risultati può fare il decisore pubblico. Gli esempi a motivazione dell’ordine sono, a ben vedere, critiche non alla ricerca in sé, ma all’uso che di essi può aver fatto il regolatore. Politiche ambientali, sanitarie, di genere sono appunto politiche. Possono basarsi e si basano, in un rapporto sempre più stretto che riguarda non solo il governo ma anche i giudici, sui riscontri della comunità scientifica, ma nella piena disponibilità di scelta su se e come utilizzare le informazioni acquisite. La questione non è molto diversa da quella del vituperato lobbying. Se c’è un problema di cattura del regolatore, non è di chi fa il suo mestiere, ma di chi, nella libertà politica, decide come trattare le informazioni ricevute dai lobbisti, dai ricercatori, da qualsiasi portatore di informazioni o interessi. L’ordine di Trump confonde le due cose e impone una presunta etichetta di affidabilità alla scienza in luogo della serietà della politica. Tale confusione non è, si teme, casuale.

Robert Kennedy Jr è diventato segretario del Dipartimento alla salute per le sue posizioni sprezzanti verso la scienza e diffidenti verso i vaccini, la ricerca medica e gli interessi delle case farmaceutiche, dell’industria alimentare e chimica. E si è detto pronto a imporre agli scienziati del governo di pubblicare solo su riviste ministeriali. D’altro canto, anche la strategia retorica di Vance e Trump di sovrapporre censura a ben-pensiero unico aiuta a preparare il terreno a uno spiazzamento nella circolazione delle idee e delle informazioni, indistinte quanto a solidità e veridicità. L’executive order, quindi, potrebbe diventare un cavallo di Troia non tanto per dominare la comunità scientifica, ma per accreditare l’antiscienza come scienza in nome di una libertà di ricerca che nella realtà non sembra minacciata da nessuno. Qualcosa di molto vicino all’uno vale uno dei tempi d’oro del grillismo. L’attenzione che l’order rivolge alle opinioni differenti e alla garanzia di pareri scientifici alternativi suona, allora, come un campanello d’allarme, aldilà delle sacrosante libertà di pensiero e ricerca. Anzi, proprio quella libertà di scienza diviene minacciata da un ordine che, in suo nome, vuole imporre obblighi e condizioni a chi la deve condurre e interpretare.

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