La tribalizzazione della democrazia

Il declino della partecipazione politica mostra una democrazia sempre più divisa in fazioni, dove il confronto cede il posto alle proteste

6 Ottobre 2025

La Stampa

Serena Sileoni

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Dio è morto e la democrazia non gode di buona salute. Non è solo una battuta. La secolarizzazione della società aveva lasciato spazio ad altri culti e liturgie. Per un po’, la politica ha continuato a unire le persone laddove la fede smetteva di farlo. Oggi, anche le idee e i riti democratici sono in crisi.

L’astensione è solo un parziale indicatore della disaffezione per la politica. Si potrebbe infatti sostenere che non votare è un modo di partecipare. Chi non vota manda un segnale di sfiducia nei confronti dell’offerta politica attuale, spingendo a trovarne di nuove. Ma il disinteresse per la cosa pubblica è qualcosa di più profondo di quello che, a grosse linee, si manifesta nel non voto. Come scriveva ieri il professor Cassese sul Foglio, richiamando un’indagine recente dell’Istat, in vent’anni sono diminuite drasticamente le persone che si informano regolarmente di politica. In queste ultime settimane, tuttavia, c’è stato uno slancio di partecipazione e attivismo attraverso le manifestazioni e gli scioperi per Gaza e per Flottilla. Come mettere insieme queste due cose?

Una prima lettura è che le persone continuano a far sentire la loro voce per ciò che ritengono importante. Cortei e scioperi sono un modo di dare espressione alle proprie idee e sono quindi, come tali, una forma di partecipazione democratica, non a caso proibita nei sistemi autoritari. Tuttavia, è difficile negare che vi sia un cortocircuito tra l’attivismo nel “manifestare contro” e il disinteresse a “partecipare per”. Anzi, ancor prima, tra il manifestare le proprie idee politiche e il disinteresse documentato a informarsi bene prima di averle.

Sorge allora il sospetto che ci troviamo di fronte a due facce della stessa medaglia. Lo slogan “blocchiamo tutto” è piuttosto indicativo: se la partecipazione politica diventa ostruzionismo generalizzato, blocco di tutto, non importa chi votare, né quanto informarsi. Importa invece trovare un soggetto diverso da sé con cui prendersela: le multinazionali ai tempi di Seattle, la Troika negli anni dell’austerità, magari Israele oggi. Non a caso, Bloquons tout viene da un movimento di protesta francese contro i piani di contenimento della spesa pubblica del governo.

L’identità individuale, che è quella che dovremmo mostrare attraverso le nostre idee e la capacità di esprimerle, diventa allora un’identità collettiva che ci distingue protestando da una parte, contro un’altra. Non si contesta necessariamente per rappresentare un’idea informata, ma per una causa, ora questa, ora quella, che divide il mondo tra chi ci crede e chi no, tra un “noi” e un “loro”.

Nelle università italiane si sta diffondendo la sottoscrizione di mozioni che indirettamente portano a fare la conta tra chi è fuori e chi è dentro la causa palestinese. Il Senato accademico e il Consiglio di Amministrazione dell’Università Ca’ Foscari Venezia, ad esempio, hanno approvato una mozione di condanna dei crimini di Israele che impegna l’Ateneo non solo a non avviare accordi o collaborazioni con enti israeliani implicati, direttamente o anche indirettamente, nella campagna militare, ma soprattutto ad assicurare la coerenza delle collaborazioni e relazioni scientifiche e didattiche, che, tradotto, vuol dire controllare le attività individuali di ricerca e collaborazione dei propri docenti.

Una delle conseguenze più allarmanti di questo modo di esprimere le opinioni è eliminare le sfumature e diventare indisponibili all’ascolto non solo delle argomentazioni opposte alle nostre, ma anche solo di quelle meno nette. Per questa via, però, la democrazia smette di essere uno spazio che si vuole riempire di confronto e diventa uno spazio che si deve svuotare delle distinzioni. Non si può non essere da una parte o dall’altra: bisogna fare una scelta che taglia in due la realtà dei giudizi e delle convinzioni. Anche questo ha a che fare con lo stato di salute della democrazia.

Molti italiani non vanno a votare e non pagano le tasse. Non è un giudizio, è un dato di fatto. Si indignano però con passione per le giuste cause. Partecipano nella protesta più che nella realizzazione. Ma i diritti e i doveri di solidarietà e partecipazione politica o si prendono tutti, e allora insieme funzionano, o non si prendono come le ciliegie nel cestino. Altrimenti, la democrazia non solo non gode di buona salute, ma rischia di morire di morte naturale prima di venire uccisa dagli autocrati in giro per il mondo.

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