La lezione indiana sui call center

Invece di comprendere e anticipare l’innovazione, l’Italia – con sorprendente continuità bipartisan – ha fatto di tutto per combatterla

20 Ottobre 2025

Istituto Bruno Leoni

IBL

Argomenti / Diritto e Regolamentazione

L’intelligenza artificiale comincia a trovare applicazioni che possono avere conseguenze rilevanti sul mondo del lavoro o, almeno, su alcune professioni e mansioni. Alcuni giorni fa, Reuters ha pubblicato un servizio su come l’automazione sta sostituendo gli operatori di call center in India, che negli ultimi anni – anche grazie alla padronanza dell’inglese – si è affermata come “il backoffice nel mondo, a volte a scapito di lavoratori in altri paesi”. Il governo indiano ha deciso di cavalcare il cambiamento, non ostacolarlo: “il lavoro non scompare con la tecnologia. Ne cambia la natura e nuovi tipi di lavori vengono creati”, ha detto tempo fa il premier Narendra Modi.

Il tecno-ottimismo di Modi può essere eccessivo, e il dibattito nel paese è aperto. Ma è interessante sottolineare come voglia cogliere le opportunità del progresso, nella comprensione che difendere l’antico non può mai essere una strategia di crescita. Infatti, adesso l’enfasi è tutta sulla formazione e l’istruzione, con l’obiettivo (o almeno la speranza) di rafforzare la propria posizione nei settori IT. Questa storia è interessante non solo in sé, ma anche nel confronto col modo in cui l’Italia sta affrontando esattamente la stessa sfida nello stesso settore, quello dei call center, che attualmente nel nostro paese occupa circa 80 mila addetti.

Invece di comprendere e anticipare l’innovazione, l’Italia – con sorprendente continuità bipartisan – ha fatto di tutto per combatterla. Per citare solo alcuni esempi: nel 2017 è stato imposto l’obbligo per gli operatori di call center di dichiarare il paese da cui effettuano la chiamata (forse nella speranza di esercitare un nudge sovranista ante litteram); lo stesso anno le imprese del settore hanno sottoscritto un protocollo, sostenuto dal governo, con l’impegno a mantenere in Italia almeno l’80 per cento degli addetti; addirittura a un certo punto si era introdotto un emendamento che, nel contesto della liberalizzazione dell’energia elettrica, avrebbe obbligato i nuovi fornitori a rilevare i contratti coi contact center dei fornitori precedenti. E mentre si faceva tutto ciò, si polemizzava sulle pratiche aggressive degli stessi call center e si cercava di escogitare metodi per limitare le chiamate moleste, sanzionando gli abusi. e modificando le regole per prevenire le condotte più fastidiose. Senza contare gli oneri imposti a queste attività, spesso nel nome di un’adesione formale ai principi della privacy senza tenere conto della loro funzione economica (si pensi agli obblighi di fornire una serie di informazioni burocratiche all’inizio delle telefonate). Tutto questo dibattito si è svolto avendo in mente sempre e soltanto la difesa degli attuali occupati: senza mai porsi il problema di come la tecnologia avrebbe cambiato il business né distinguere tra servizi outbound e inbound, questi ultimi spesso elemento distintivo della qualità commerciale di chi ne fa uso.

In sintesi, e al di là dei limitati effetti di molti di questi interventi in un senso o nell’altro, l’atteggiamento corale della politica italiana è stato quello, da un lato, di sovraccaricare gli operatori di adempimenti e, dall’altro, di isolarli dalla concorrenza internazionale, schermarli per quanto possibile dalla tecnologie e sostenerne le attività scaricandone i costi su terze parti (come le imprese partecipate dallo Stato, occasionalmente al centro di siparietti più o meno pubblici con l’impegno a tutelare l’occupazione nei call center tramite commesse più o meno spontanee). Tutto ciò perdendo di vista il fatto che quelle stesse attività stavano diventando rapidamente obsolete, e con esse l’intero dibattito che si è svolto sull’argomento negli ultimi dieci anni. Forse, più attenzione alla dinamica degli eventi e meno ossessione per la statica dell’occupazione sarebbe il primo passo per rendere la nostra economia più dinamica e le prospettive occupazionali dei giovani più rosee. 

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