Sulla giustizia il clima si è subito arroventato. Il tema è cruciale non solo in Italia. Si pensi solo alla Francia e agli Stati Uniti. È necessario innanzitutto capire il perché di tutto questo. È quanto intende fare il libro appena uscito I signori del diritto (IBL Libri, €18) di Raimondo Cubeddu e Piergiuseppe Monateri, con prefazione di Nicolò Zanon, già membro della Corte costituzionale. Si tratta di un approfondimento davvero prezioso, che illumina con argomentazioni pungenti ma sempre equilibrate, storiche e attuali, le ragioni della crescente capacità di una casta inamovibile di esercitare sempre più potere sottraendosi a qualsiasi forma di responsabilità.
Per cominciare, il fuoco va messo sulla crescente prevalenza della giurisdizione sulla legislazione e, in tal modo, sulla dilatazione dell’interpretazione della legge rispetto alla sua lettera. Cresce la discrezionalità del giudice. Da tale continuo slittamento deriva la tendenza fatale della magistratura a costituirsi polo di potere autonomo e alternativo rispetto a quello di Parlamento ed Esecutivo, con la conseguente politicizzazione della giurisdizione.
Tale processo è poi amplificato in Europa dal rimpallo tra i diversi livelli di giurisdizione — nazionale, comunitaria, internazionale — per cui alla fine la verità è solo interpretazione. Di un giudice che, anziché essere soggetto alla legge, ne diviene signore e decisore.
Ma non solo. Come si sottolinea nel libro, in Europa, ma ancora più in America, ha preso piede la corrente di pensiero giuridico del neocostituzionalismo: una tendenza che postula che la Costituzione sia qualcosa di vivo e in perenne evoluzione, per cui a contare deve essere non la sua lettera ma l’interpretazione — ormai anche costruttiva — della magistratura, attraverso il riconoscimento di diritti sempre nuovi che produrrebbe sempre più democrazia. Vita e avanzamento democratico suonano naturalmente bene. Ma c’è un ma.
A questa stregua, a decidere i nuovi diritti e i nuovi contenuti democratici sarebbero i magistrati, non i rappresentanti del popolo eletti attraverso l’esercizio della sovranità popolare. Ma allora, se le parole hanno un senso, la democrazia che si vorrebbe ampliare in realtà, attraverso un cortocircuito, evapora a favore di uno Stato di diritto forgiato da un’élite illuminata ma democraticamente irresponsabile. Una pericolosissima alterazione dell’equilibrio tra i poteri.
In questo quadro, la riforma varata dal nostro Governo va nella giusta direzione e promuove, con la separazione delle carriere, la terzietà del giudice, provandosi a limitare — con la riforma del Csm e delle sue modalità di elezione — la politicizzazione dei magistrati. È un primo passo, si spera anche verso la definizione di nuovi confini della discrezionalità. Ma appunto, è solo un primo passo.
Sia chiaro: non verso la sottomissione del potere giudiziario a quello politico, come si sbraita senza alcun fondamento, ma volto viceversa a impedire la lenta trasformazione del nostro sistema liberaldemocratico in una Repubblica dei giudici.