La generazione Eramus che non va a votare e poi scende in piazza

Un dato va ricordato: chi è nato dopo il 1980 appartiene a una generazione sacrificata da logiche folli

29 Giugno 2016

Il Giornale

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Per alcuni giorni ci hanno descritto un Regno Unito diviso in due: con nuove generazioni moderne e aperte al mondo (che avrebbero votato «remain»), e vecchi affezionati a un mondo che non c’è più, ormai pensionati e prossimi al decesso, i quali avrebbero seguito logiche nazionalistiche quando non addirittura xenofobe (optando per il «leave»). Ora sono stati resi nuovi sondaggi sull’afflusso al voto diviso in fasce d’età ed essi ci dicono che solo il 36% di quanti hanno tra i 18 e i 24 anni si è recato alle urne, contro una partecipazione degli ultrasessantenni che raggiungerebbe invece l’83%. Se a ciò si aggiunge che tra i giovani, ovviamente, vi sono sostenitori della Brexit, alla fine ci si rende conto che solo uno su cinque tra i giovani corrisponde allo stereotipo europeista vendutoci finora.

Il dato più importante, comunque, è che perfino dinanzi a una scelta cruciale per la Gran Bretagna e per l’intera Europa la maggioranza di questa generazione Erasmus così cara ai commentatori progressisti avrebbe preferito rimanere a casa. Si tratta di una scelta legittima, ma che rende un po’ meno semplice dare credito a quella rappresentazione di comodo dei nuovi giovani che ci è stata propinata. Un dato va ricordato: chi è nato dopo il 1980 appartiene a una generazione sacrificata da logiche folli.

Si sono affacciati al mondo del lavoro in una fase storica che in larga parte dell’Occidente appare caratterizzata da debiti pubblici e pensionistici fuori controllo. Quanti sono venuti prima sono vissuti al di sopra delle loro possibilità e a chi è nato successivamente ora tocca destinare una parte rilevante del proprio tempo e dei propri redditi al pagamento degli interessi sul debito pubblico e al finanziamento di pensioni che altri incassano. Ogni mese essi versano sostanziosi contributi previdenziali, ma già sanno che non potranno contare su una vera pensione quando saranno anziani.

In sintesi, questi giovani appaiono vittime incapaci di reagire e perfino inconsapevoli della loro situazione. È significativo che in un mondo politico che, nel corso dei decenni, ha visto emergere partiti schierati a difesa degli animali, degli automobilisti, dei pensionati, dei cacciatori e via dicendo, non ci sia mai stato chi ha interpretato questa frattura generazionale. Uno tra i motivi, probabilmente, sta nell’apatia attestata da quel misero 36%. Poiché il dato britannico ci sembra dire che i giovani sembrano incapaci di dire la propria. Si potrebbe dire, civettando un poco con il gergo marxiano, che sono soggetti sfruttati privi di una «coscienza di classe»: e perfino quando è in gioco una decisione storica, alla fine se ne stanno in un angolo.

Tanto i giovani del Sessantotto erano ideologizzati, quanto chi è venuto dopo appare apatico e chiuso nel suo bozzolo. Queste nuove generazioni, al cui interno per fortuna vi sono ovviamente molte eccezioni, sono cresciute in un Occidente caratterizzato dall’assistenzialismo. Sono i figli di un welfare state ormai esausto e dissestato, ma ancora tentacolare: che controlla le scuole, gli ospedali, i servizi pubblici e larga parte della nostra vita sociale. La loro limitata attenzione alle grandi scelte del proprio tempo è forse connessa a un processo storico che tende a confinare ogni individuo in se stesso.

Sarebbe bene che fossero più protagonisti, perché essi possono disinteressarsi della politica, ma devono sapere che quest’ultima non smetterà di occuparsi di loro, erodere le loro libertà, minare la possibilità stessa di avere un futuro.

Da Il Giornale, 29 giugno 2016

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