La festa dell’Europa incompiuta

L'UE è passata dall'essere un'area di libera produzione, a uno spazio di interessi economici comuni e, quindi, di pace

8 Maggio 2024

La Stampa

Serena Sileoni

Argomenti / Diritto e Regolamentazione

Il 9 maggio è la festa dell’Europa perché il 9 maggio 1950 il ministro francese degli affari esteri Robert Schuman rese alla stampa una dichiarazione relativa a un punto «limitato ma decisivo» da cui si sarebbe tracciata la linea della «Federazione europea» la proposta di una gestione comune, sotto una istituzione europea sovranazionale, del carbone e dell’acciaio. Queste materie prime erano ancora, nella metà del secolo scorso, la condizione materiale di sviluppo economico e di potenza militare. «La fusione delle produzioni di carbone e di acciaio», dichiarò Schuman, avrebbe assicurato «subito la costituzione di basi comuni per lo sviluppo economico» facendo sì che «qualsiasi guerra tra la Francia e la Germania diventi non solo impensabile, ma materialmente impossibile». In breve, la proposta di Schuman fu mettere in pratica un adagio liberale attribuito a Frédéric Bastiat, secondo cui il passaggio delle merci è alternativo a quello degli eserciti. Sarebbe bastata questo fase iniziale per avviare una «Federazione europea indispensabile al mantenimento della pace».

La storia ha dato ragione a questa idea. Un continente che a memoria d’uomo era stato teatro di guerra è diventato teatro della più lunga pace che si ricordi. Non fu solo merito delle Ceca. La guerra fredda e la sua fine, così come il ruolo di garante dell’ordine occidentale degli Stati Uniti, hanno aiutato la Comunità economica del carbone e dell’acciaio a diventare il sistema delle Comunità europee prima (quella economica, quella del carbone e dell’acciaio e quella dell’energia atomica), la Comunità europea in seguito e infine l’Unione europea. Da un obiettivo circoscritto come un’area di libera produzione di materie prime si è passati alla creazione di uno spazio di interessi economici comuni e, quindi, di pace. Non più solo il carbone e l’acciaio, ma le persone, i loro beni, i loro titoli professionali, le loro aziende si muovono liberamente, generando un interesse prima, e un convincimento morale poi, a mantenere quello spazio un luogo di pace e benessere. Partire da un ambito economico preciso come strumento di raggiungimento di obiettivi politici più ambiziosi è un’intuizione, si potrebbe dire, liberale. Deriva dall’idea propria di quella tradizione che la libertà è una condizione umana unitaria, e non segmentata in diverse, autonome sfere di libertà di cui alcune sono più importanti di altre. E deriva anche da un approccio minimale agli strumenti e agli obiettivi dello Stato.

Se questo è vero, è solo un apparente paradosso il fatto che ora, al culmine della sua integrazione politica, l’Unione mostri anche le sue fragilità. Le ambizioni solidaristiche dell’Europa si sono espanse a tal punto che le competenze dell’Unione sono passate dall’essere chiaramente distribuite, limitate e proporzionate all’essere onnicomprensive e indefinite. Rispetto all’ordine europeo previsto dai trattati, sembra essere venuto meno quel principio di attribuzione delle competenze che è un aspetto fondamentale della rule of law europea, perché è un principio che dà prevedibilità, certezza e ordine. Come previde Jean Monnet, amico e consigliere di Schuman, l’Europa è diventata «la somma delle soluzioni alle crisi che ha dovuto affrontare». Le ultime crisi, da quella dei debiti sovrani fino a quella pandemica e inflazionistica, hanno enfatizzato senza soluzione di continuità una dimensione politica che fino a quel momento era rimasta sotto traccia rispetto alla dimensione giuridica.

I trattati europei sono molto diversi rispetto alle costituzioni nazionali: non pretendono di assegnare un programma politico-costituzionale a una comunità di cittadini, ma circoscrivono le competenze e le procedure delle istituzioni europee per tenerle entro i loro limiti. Assegnano dei valori condivisi, certo, ma partono dalle finalità e dalla distribuzione delle competenze per neutralizzare l’esistenza di un vero e proprio indirizzo politico europeo. Quest’ordine sembra oggi completamente superato. Non è un caso se le basi giuridiche con cui le istituzioni europee agiscono vengono sempre più interpretate in maniera creativa. L’ampliamento del ruolo della Bce da garante della stabilità monetaria a prestatore di ultima istanza, l’invenzione di un programma di indebitamento comune come il NextGEU nel 2020 sono solo due dei più manifesti esempi di una Europa politica che ha iniziato a interpretare in maniera espansiva il suo armamentario giuridico. In maniera meno evidente, ne è esempio il ruolo della Corte di giustizia, ormai Corte costituzionale più che semplice interprete del diritto. O il ruolo centrale come non mai della Commissione, l’unico organo rappresentativo della sola Unione e non anche degli Stati membri e dei suoi cittadini.

Il Next Generation EU non è stato solo lo spartiacque tra una Unione come struttura giuridica e una come dimensione politica. Ancor più, ha rappresentato un precedente per un salto qualitativo verso una dimensione politica europea sua propria e una titolarità dell’indirizzo politico che non è più negli Stati, ma non è più nemmeno solo nei trattati. La riforma del Patto di stabilità segue proprio questa strada. Che è quella di una Europa sempre più simile a una Federazione come metodo, come obiettivi, come strumenti.

Questa, in fondo, era l’ambizione che Schuman espresse nella dichiarazione del 9 maggio 1950, dove la parola Federazione compare due volte. Ma se si vuole che questa ambizione diventi realtà, sarà necessario iniziare a riconoscere chiaramente che l’Unione dei trattati, l’Unione come spazio normativo, è stata in pochi anni ampiamente superata, per approdare a un “non ordine” che, così com’è, rischia di esaurirne la credibilità. Perché l’Europa non rimanga vittima di se stessa, occorrono tre condizioni, niente affatto scontate.

Occorre una cultura politica matura, che consenta ai cittadini europei di valutare e votare la classe politica per quello che propone, fa o non fa in Europa. Non negli Stati nazionali. Occorre ristabilire un ordine di competenze, attribuzioni, procedure e poteri che impedisca le interpretazioni più creatrici degli ultimi anni e che dica dove sta l’indirizzo politico euro-nazionale per poterlo riconoscere e, quindi, limitare. Infine, occorre che quel rinnovato ordine, pur assecondando una maggiore dimensione politica dell’Europa, scelga di legittimarla non solo come spazio di certezza delle regole, ma anche come spazio di opportunità. Esattamente come è avvenuto ai tempi di Schuman e Monnet, nel solco dei principi di rule of law e libertà.

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