La concorrenza che serve

Le concessioni per gli stabilimenti balneari non «pesano» molto sul Pil ma hanno assunto un valore simbolico

26 Maggio 2022

Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Diritto e Regolamentazione

Quanto pesano le spiagge sul Pil italiano? A giudicare dal dibattito di questi giorni, si direbbe molto. Il governo ha minacciato di mettere la fiducia sul ddl concorrenza. I partiti stanno litigando, al Senato, sul punto che riguarda gli stabilimenti balneari. La questione è nota: da anni, l’Unione Europea ci sprona a mettere a gara le concessioni, anziché rinnovarle tacitamente. Ricorrere a una procedura di evidenza pubblica dovrebbe servire a valorizzarle meglio, con profitto per il cittadino-contribuente.

Il ddl concorrenza però non prevede che accada questo. Prevede semmai che, entro sei mesi dall’approvazione della legge, il governo stesso debba adottare uno o più decreti legislativi per riordinare il settore, frutto di una decisione collegiale fra ministero delle Infrastrutture, ministero del Turismo, ministero delle Transizione ecologica, ministero dello Sviluppo economico e ministero per gli Affari regionali. Se anche il provvedimento fosse approvato, insomma, bisognerebbe aspettarne un altro, mettendo d’accordo cinque ministeri diversi. Qualcosa del genere accadrebbe anche col servizio taxi e noleggio con conducente (Ncc): il ddl concorrenza prevede sì che in qualche modo si sistemi il settore, ma con una legge delega. Ammettiamo che il governo riesca a far approvare il ddl per l’estate: i sei mesi successivi sono quelli che ci conducono verso le elezioni. Improbabile che i partiti accettino di mettere mano alle licenze dei taxi.

Tanto rumore per nulla? Queste norme non cambieranno granché la nostra vita. Le spiagge valgono un granello di sabbia del Pil italiano. Sono oggetto di delega anche i servizi pubblici locali, che sul Pil pesano ben di più e che, politicamente, sono un altro nido di vespe.

C’è però un valore simbolico: è il punto della bandiera delle riforme. Il guaio è che queste ultime ormai sono una specie di medicina che i partiti si dicono disponibili a buttar giù solo con lo zuccherino del Pnrr. Per quanto blandi possano essere i cambiamenti normativi di cui si discute, se non fossero la contropartita dei sussidi europei non se ne parlerebbe nemmeno. Mettere a gara le spiagge difficilmente avrà effetti particolarmente rilevanti sulla crescita. I partiti possono legittimamente pensare che il costo della riforma, in termini di consenso, sia più elevato che il beneficio. Sembra però che lo pensino di qualsiasi passo verso un’economia di mercato più aperta.

È ragionevole? Si dirà che nel resto del mondo il «liberismo» è passato di moda. In Italia però non passa mai di moda il «vincolismo». L’impresa da anni attende una netta semplificazione di norme e regolamenti. Le attività anche più piccole sono sommerse da cascate di adempimenti. Persino quanto è stato fatto per introdurre trasparenza e per rendere più lineare il rapporto fra Pubblica amministrazione e cittadino, spesso, si è risolto nel suo contrario. Nei settori dai quali lo Stato era uscito (pensiamo alle assicurazioni) è ritornato prepotentemente. Servizi essenziali come scuola e sanità restano chiusi alla concorrenza e mostrano tutti i difetti del monopolio. Spesa elevata e ramificazione dell’impresa pubblica lasciano presagire un futuro nel quale ad affermarsi saranno i privati più bravi a tessere relazioni, non i più bravi sul mercato. L’unico laissez-faire che conosceremo è, come sempre, il lasciar fare i furbi.

Tutto questo ha un costo: è una pesante tassa sulle imprese private che funzionano, che spesso fanno il grosso del proprio fatturato all’estero e che reggono sulle spalle tutto il sistema. Sono proprio loro che beneficerebbero di un po’ più di concorrenza, per esempio nell’ambito dei servizi: sia perché i loro costi si abbasserebbero, sia perché un assetto basato su mercati più aperti considererebbe e valorizzerebbe il talento in modo diverso. Le intelligenze che scelgono di passare dove l’acqua è più bassa, imboscandosi nel parastato, sono uno spreco per il Paese.

Davvero non c’è partito politico che voglia allentare le briglie alla parte del Paese che può correre e trainare tutti gli altri? Questa non è una questione «tecnica»: non si tratta di dettagli di carattere giuridico. È un problema invece squisitamente politico: riguarda l’idea che abbiamo dell’Italia e degli italiani. I partiti sembrano considerarci un Paese assistito e di assistiti. Come se il Paese non esprimesse anche indipendenza, creatività, impegno. O come se il voto di chi li esprime valesse meno di quello degli altri.

dal Corriere della Sera, 26 maggio 2022

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