La Bibbia del libero mercato

George Melloan, per 50 anni al «Wall Street Journal», ne racconta la storia, il Dna editoriale e come è diventato dalla fondazione nel 1879 un punto di riferimento per i lettori americani

8 Gennaio 2018

Domenica-Il Sole 24 Ore

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Un giornale è un punto di vista. Nel 1890, appena un anno dopo la sua fondazione, il «Wall Street Journal» ingaggiò una dura battaglia contro lo Sherman Silver Purchase Act, che obbligava il Tesoro ad acquistare 4 milioni e mezzo di once di argento al mese. Era di fatto «un modo per venire alle prese con la pratica, politicamente allettante, di creare inflazione». Ottantaquattro anni dopo, a una colazione informale, il futuro Premio Nobel Robert Mundell spiegava ai redattori della pagina delle opinioni che «le politiche pubbliche dovrebbero essere l’esatto opposto delle attuali. Anziché un aumento della massa monetaria e una forte progressività fiscale, Mundell propugnava una stretta monetaria e una considerevole riduzione delle aliquote più alte». Più di recente, il Journal è stato il grande quotidiano più aperto a opinioni critiche sulle politiche monetarie non convenzionali.

Ai tempi dello Sherman Silver Purchase Act, abolito nel 1893, il Journal era appena l’embrione di quel che sarebbe diventato. Era l’evoluzione di una newsletter finanziaria curata da Charles Nerhstresser, Edward Jones e Charles Dow, quest’ultimo famoso per aver compilato un indice per tenere il polso delle oscillazioni alla Borsa di New York: da principio, si basava sulle azioni di nove ferrovie e due imprese industriali. Nel 1979, il Journal, sotto la guida di un direttore giovane e determinato, Warren Phillips, avrebbe raggiunto due milioni di copie vendute: era ormai il giornale più uniformemente diffuso degli Usa, l’unico autorevole in ciascuno degli stati americani.
Se il prodotto editoriale del 1979 era altra cosa rispetto a quello del 1889, così come altra cosa ancora è quello di oggi, alcuni tratti sono sorprendentemente simili. Secondo George Melloan, che ci ha lavorato per cinquant’anni anni, il più celebre dei quotidiani economico-finanziari conserva una cultura che, pur soggetta a qualche correzione stagionale, ha da sempre la stessa foggia. Lo scetticismo verso la manipolazione monetaria, la convinzione che l’inflazione sia un’imposta mascherata, ne sono solo un esempio. Uno dei primi claim del Wall Street Journal era: “la verità usata nel modo giusto”. A differenza di quanto facevano altre pubblicazioni finanziarie, Dowsin da principio pretese che i suoi giornalisti non investissero nelle aziende che seguivano professionalmente.

Questo rispetto per i mercati ha segnato la storia della “Opinion Page”, che a chiamarla pagina dei commenti si finisce per non capire che cosa effettivamente sia stata e sia: una sorta di repubblica indipendente, che dà “notizia delle idee”, ogni tanto determinando la fortuna di alcune di esse.

I principi di fondo sono ben sintetizzati dal motto “Free people, free markets” ripreso da Melloan come titolo del suo libro. Che è a tutti gli effetti un’autobiografia, ma un’autobiografia anomala, scabra, povera di notizie che non siano strettamente professionali, nella quale se si dà conto di un’amicizia, di un incontro, è perché si è ritagliato un suo posto sulla più vasta tela del secolo.

Liquidato da Truman come la “Bibbia” del partito repubblicano, il Wsj come la destra americana per lungo tempo ha avuto scarsa simpatia per le politiche imperiali. Questa cultura, tanto guardinga nei confronti dell’Unione Sovietica, era permeata dalla convinzione che gli Stati Uniti non potessero giocare al poliziotto del mondo. Le cose cambiarono con la guerra fredda, con la Presidenza Kennedy: criticato per il suo keynesismo, ma difeso in occasione della Baia dei porci. L’anticomunismo del Journal è da sempre militante e col tempo si fa più aggressivo. Con l’emergere della minaccia terrorista, è su quelle pagine che la dottrina “neocon” viene presentata nel modo più persuasivo ed elegante. I suoi pensatori di riferimento le frequentavano sin dagli anni Settanta, quando Irving Kristol si compiace dell’etichetta di “neoconservatore” appiccicatagli addosso dagli ex compagni di sinistra.

L’influenza della “Opinion Page” raggiunge proprio allora il suo apice. Già negli anni Trenta, quando il New Deal cominciava a prendere forma, su quelle colonne Barney Kilgore aveva predetto che «in qualsiasi associazione tra un’azienda e lo Stato, lo Stato sarà sempre li partner preponderante».

Confermata alla prova dei fatti, quella profezia diventa uno strumento prezioso per decrittare gli eventi. Nel 1972, per convincerlo a restare in squadra accontentandosi della maglia di numero due, Phillips spiega a Melloan che sarà stimolante lavorare con il suo nuovo, più giovane, capo, Robert Bartley. E le cose vanno proprio così. Da principio, senza pagare nemmeno pegno all’usurante rito delle riunioni: «Non avevamo riunioni formali della redazione, ma la mia scrivania fungeva da calamita per discussioni informali, che di solito iniziavano con uno o due colleghi e finivano con l’attirare gran parte dello staff».

Bartley va a pesca di talenti e riunisce attorno a sé gli economisti che prepareranno l’arsenale retorico della “Reaganomics”: Jude Wanniski, Arthur Laffer, Paul Craig Roberts, Mundell padre nobile. Non è detto che quella per ridurre le imposte sia stata la battaglia più importante della “Editorial Page”. Melloan rammenta la difesa dei raider di borsa e, con essi, di un mercato dei capitali più libero; la critica serrata ai fautori della “decrescita” antemarcia; il sostegno a politiche più liberali in tema di immigrazione, una delle ragioni per le quali il Journal, dove la gestione Murdoch non ha toccato la sezione commenti, era inizialmente assai sospettoso nei confronti di Donald Trump. Su altri temi, come la guerra alla droga, al ventaglio delle opinioni non si sovrapponeva una linea editoriale netta. È sulle tasse, però, che una vittoria politica si determinò grazie all’incrociarsi di circostanze propizie e tesi ben ragionate, facendo “uso appropriato” della verità.

Racconta Melloan che ampie riscritture dei pezzi fanno parte della “tradizione editoriale” del Journal. Non si può sottostimare l’importanza della “Editorial Page” come vetrina per certe idee, certo, ma anche come palestra. Il mercato dei punti di vista è sempre più competitivo: e non si sopravvive se non si impara a fare la punta ai propri argomenti.

George Melloan, Free People, Free Markets: How The Wall Street Journal Opinion Pages Shaped America, Encounter Books, 2017

da Domenica-Il Sole 24 Ore, 7 gennaio 2018

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