L' #ItaliaBuona

I privati promuovono made in Italy meglio dei carrozzoni pubblici. Eataly a New York

27 Aprile 2015

Il Foglio

Serena Sileoni

Argomenti / Teoria e scienze sociali

A Madison Square c`è sempre un capannello di persone. Non davanti al Flatiron, come ci si aspetterebbe. Dall`altra parte della strada, all`incrocio con la Quinta strada, davanti alle vetrine di Eataly.

Sono lì per avere un assaggio di Italia. E non solo al palato, ma anche con la mente e l`immaginazione. Lì non trovano solo taralli e vino, piuttosto una sintesi dell`Italia intera, con il suo modo di vivere, la sua cultura, il suo idioma, l`agricoltura, il paesaggio e le tradizioni alimentari. C`è una scuola di cucina, ci sono foto delle nostre città e delle nostre campagne, c`è la storia attraverso la storia dei cibi e dell`agricoltura, ci sono mappe enologiche e poster per imparare i modi di dire. C`è una sorta di percorso istruttivo per scoprire l`eleganza del nostro paese. Quella per cui gli stranieri vanno matti. Un percorso che ha creato ricchezza e posti di lavoro, anziché sottrarli, come fatto finora per promuovere l`Italia all`estero.

Buonitalia, la spa “in house” del governo nata per valorizzare la produzione agroalimentare oltre frontiera, le cui funzioni e risorse sono ora state trasferite all`Istituto per il commercio estero, aveva un bilancio complessivo di 90 milioni di euro. E a proposito di Ice, l`Agenzia vigilata dal Mise, i suoi costi ammontano a circa 80 milioni di euro per spese generali e di gestione, più 50 milioni di fondi da assegnare per progetti. L`Enit, Agenzia per la promozione del turismo vigilata dal Mibact, riceve più di 18 milioni di euro dallo stato, e tre dalle regioni e dagli enti locali a titolo dí compartecipazione alle azioni promozionali all`estero. Senza contare, poi, le camere di commercio, le attività delle regioni o anche solo i famosi siti: ieri italia.it, per il quale erano stati stanziati 45 milioni di euro (spesi 7), oggi verybello.it, per il quale sono stati spesi 35 mila euro, ma sono stati stanziati cinque milioni per campagna promozionale.

Eataly, invece, genera ricchezza pari a un fatturato di 350 milioni di euro e un ebidta (earnings before interest, taxes, depreciation and amortization) tra i 40 e i 45 milioni.

Tuttavia, non è una questione di quanti soldi pubblici sia costato cercare di promuovere l`Italia del buon vivere e del buon cibo all`estero. O di quanti se ne siano sprecati. E` il fatto di faticare a comprendere, in politica come nella società civile, che lo scambio di esperienze, beni, conoscenze e valore è una cosa molto complessa e che, proprio per la sua complessità, non esiste una formula unica, un progetto sicuro di cui sono depositari i pubblici funzionari. Eataly è riuscita in pochi anni laddove Enit, Buonitalia e la messe di enti e progetti pubblici non sono riusciti. Ha scommesso su un`idea semplice: portare la qualità e la specificità negli scaffali di una catena organizzata come fosse un supermercato. E la sta costruendo pezzo per pezzo, trovata dopo trovata, operando interamente nel sistema di mercato e confidando sulle competenze e le intuizioni disperse di tutti gli attori coinvolti – dal produttore al distributore, dal magazziniere allo spedizioniere, dal commesso al pubblicitario – e sulla loro volontà di trarne un profitto.

Oggi Eataly porta a migliaia di chilometri di distanza non solo le eccellenze alimentari italiane, ma anche la conoscenza di molti aspetti dell`Italia. E questo, oltre tutto, ci inorgoglisce. Dovremmo ricordarcelo, specie ora che ci stiamo assuefacendo alla moda del chilometro zero e dei mercati di prossimità.

Da Il Foglio, 25 aprile 2015
Twitter: @seresileoni

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