L'immigrazione che serve

Al di là delle ragioni umanitarie, i numeri dicono che l'Italia ha bisogno di stranieri

13 Giugno 2018

Il Foglio

Carlo Stagnaro

Direttore Ricerche e Studi

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Dimenticatevi tutte le ragioni umanitarie per cui il diritto e il buonsenso prescrivono che un barcone carico di migranti stremati non possa essere abbandonato al suo destino. Dimenticatevi i buoni sentimenti e le foto dei bambini. Dimenticatevi le frasi da Bacio Perugina sui ponti e i muri. Dimenticatevi, infine, che ero straniero e mi avete accolto, o che per i cristiani “ogni regione straniera è la loro patria eppure ogni patria è per essi straniera”. C’è una ragione più cinica, fredda, utilitaristica per cui l’accoglienza va vista come un’opportunità e non un dovere: l’Italia ha bisogno di immigrati. Ogni cittadino, e l’economia nel suo complesso, trae un vantaggio dalla presenza e dall’afflusso di stranieri (siano essi provenienti da altri stati dell’Unione oppure extracomunitari). E, nella misura in cui viviamo l’immigrato come una pericolosa minaccia per il nostro benessere, dovremmo guardare il dito e non la luna; la febbre e non il termometro; l’arretratezza e l’immobilità della nostra economia e non la nuova offerta di lavoro.

Tutto ciò appare controintuitivo. Qualunque osservatore sprovveduto potrebbe far notare che, a parità di altri elementi, gli immigrati entreranno in competizione con gli altri lavoratori: quindi, gli italiani si troveranno con meno posti di lavoro (perché almeno una parte dovranno cederli agli stranieri) e salari più bassi (perché saranno costretti ad accettare remunerazioni più magre pur di conservare l’impiego). Come molte letture facili e intuitive della realtà, anche questa è sbagliata: gli economisti la chiamano “lump of labor fallacy”. La fallacia consiste nell’assunzione che la domanda di lavoro sia fissa e, dunque, un incremento dell’offerta non possa comportare altre conseguenze se non quelle appena descritte. Tuttavia, non tutti i lavoratori sono uguali: la presenza di più talenti all’interno di una stessa economia consentirà a ciascuno di specializzarsi nelle mansioni in cui è più produttivo, con conseguente beneficio sull’intera economia e la creazione di nuovi posti di lavoro.

Suona come una lezioncina ex cathaedra e priva di riscontro nell’esperienza di tutti i giorni? Forse, ma tra gli economisti che si sono occupati della materia vi è un vasto consenso, dati alla mano, sul fatto che l’immigrazione abbia questo tipo di conseguenze. Un lavoro di Michael Clemens (Center for Global Development) ha mostrato che le barriere alle migrazioni, a livello globale, impongono un costo all’economia pari a “una elevata frazione del pil globale uno o due ordini di grandezza al di sopra dei potenziali benefici derivanti dall’eliminazione delle barriere alla libera circolazione dei beni e dei capitali”. Allo stesso modo, l’effetto sui salari dei nativi è grandemente esagerato, almeno nella percezione pubblica: un incremento degli stranieri di 10 punti percentuali ha un impatto all’incirca nullo sui salari dei nativi (nella forchetta tra -2 per cento e +2 per cento). Perfino nel caso della crisi dei rifugiati in Europa, un gruppo di economisti del Fondo monetario internazionale (Shekar Aiyar e altri) è arrivato alla conclusione che “nel breve termine, l’effetto macroeconomico del boom dei rifugiati sarà una modesta crescita del pil… L’impatto nel medio e lungo termine dipenderà da quanto riusciranno a integrarsi nel mercato del lavoro… Sebbene questo possa sollevare legittime preoccupazioni tra i lavoratori autoctoni, l’esperienza passata mostra che tali effetti avversi sono limitati e temporanei”.

Chi teme che gli immigrati gli ruberanno il posto, d’altronde, dimentica che essi al pari dei nativi sono anche consumatori, oltre che lavoratori. Essi non espandono solo l’offerta di lavoro, ma anche la domanda di beni e servizi per produrre i quali, ovviamente, serviranno nuove imprese e nuovi addetti. In letteratura è chiara la rilevanza delle competenze dei nuovi arrivati rispetto all’effettivo contributo alla crescita. Ma molti di loro sono individui creativi e intraprendenti e, magari, essi stessi potranno avviare nuove attività imprenditoriali, facendo la loro parte nella creazione di ricchezza e nello sviluppo di prodotti innovativi. Se vista da questa prospettiva, la questione acquista tutto un altro aspetto: in quale senso del termine, infatti, si può ragionevolmente sostenere che l’aumento della dotazione di capitale umano in un paese, l’incremento di talenti al suo interno, può rappresentare un costo sociale? Se qualcuno ritiene che l’ingresso sul mercato di un gruppo di nuovi lavoratori abbia conseguenze prevalentemente negative, allora più ancora che degli immigrati dovrebbe spaventarsi per il lavoro femminile. Nel nostro paese, gli uni rappresentano l’11 per cento della forza lavoro, contro circa il 42 per cento delle donne: se noi maschi, bianchi, occupati sospettiamo che Aziz ci ruberà lavoro e stipendio, non dovremmo essere ancora più terrorizzati da Maria? Naturalmente, nessuno si sognerebbe di credere che la partecipazione delle donne al mercato del lavoro rappresenti un pericolo, e anzi tutti riconoscono (come è vero) che essa costituisce un volano di crescita e va pertanto incoraggiata. Tra i due casi non c’è nessuna differenza, dal punto di vista economico.

Anche al netto di queste considerazioni generali, vi sono ulteriori aspetti che non possono essere né ignorati, né trascurati né sottovalutati. Il primo ha a che fare coi lavori che gli italiani non vogliono fare. Non è un meme di Whatsapp: è una realtà che le statistiche fotografano in tutta la sua portata. Da un lato, l’Istat ci ha recentemente mostrato che molti giovani italiani disoccupati non sembrano poi tanto desiderosi di trovare un impiego: solo quattro su dieci sarebbero disposti a trasferirsi per lavoro. Dall’altro lato, tre studiosi (Edoardo Di Porto, Enrica Maria Martino e Paolo Naticchioni) hanno condotto un’indagine su 227 mila lavoratori stranieri attivi in tutti i settori tranne l’agricoltura e regolarizzati con la sanatoria del 2002. A cinque anni di distanza, l’85 per cento era ancora nel nostro paese: la maggior parte svolgevano mansioni a basso livello di qualificazione nel manifatturiero e nelle costruzioni per le quali, in tutta evidenza, non c’era grande interesse da pare degli italiani. Se non vi fidate delle statistiche e preferite l’aneddotica, provate a parlare col direttore del personale di una fonderia o di un’impresa edile oppure cercate una badante.

Dice: sì, però gli immigrati non pagano le tasse e campano del nostro welfare. Falso. Una ricerca Ocse ha mostrato che le famiglie al cui interno vi sono immigrati tendono ad avere in quasi tutti i paesi industrializzati una posizione fiscale netta positiva e superiore, in valore assoluto, rispetto agli autoctoni. Un altro studio dell’organizzazione di Parigi ha mostrato che “i migranti non sono né un peso né una panacea per le finanze pubbliche”: pagano quello che devono e prendono quello che gli spetta. Almeno in generale. Perché l’Italia, sotto questo profilo, si trova in una situazione del tutto peculiare: dati l’invecchiamento della popolazione e il saldo demografico negativo (al netto, appunto, degli stranieri), il flusso di lavoratori immigrati è essenziale a garantire la tenuta del sistema. Il presidente dell’Inps, Tito Boeri, ha stimato che un’ipotetica politica delle porte chiuse aprirebbe nei conti previdenziali un buco da 38 miliardi di euro nei prossimi 22 anni. Anche a livello internazionale, del resto, non vi è alcuna evidenza di una maggiore propensione degli immigrati a cullarsi nel welfare: anzi, Leighton Ku e Brian Bruen del Cato Institute hanno mostrato che, negli Stati Uniti, a parità di reddito gli immigrati sono meno propensi ad approfittare dei benefici dello stato sociale rispetto ai nativi. In Italia abbiamo un’esperienza simile: da un’analisi condotta da Federcasa emerge che, nonostante gli immigrati abbiano mediamente un reddito inferiore agli italiani, essi occupano solo il 7 per cento degli alloggi di edilizia popolare un dato non dissimile dalla loro incidenza sul totale della popolazione. Anche tenendo conto degli stranieri provenienti dall’Ue, i risultati non si discostano di molto.

Naturalmente, sarebbe sciocco negare che la gestione dei flussi migratori ponga anche dei problemi, a cui la politica dovrebbe dare risposte. Il primo e più importante è quello della creazione di adeguati percorsi di integrazione (a partire dall’apprendimento della lingua), sia per gli stranieri in età scolastica sia per gli adulti. Una efficace assimilazione è cruciale per consentire la effettiva partecipazione al mercato del lavoro e, dunque, catturare gli aspetti positivi del fenomeno (crescita economica e occupazionale) e limitare quelli negativi (tensioni sociali, segregazione, discriminazione). Tra questi ultimi, certamente quello più rilevante è il rischio di scivolamento della popolazione straniera verso l’illegalità. L’evidenza, però, potrebbe stupire. Negli Stati Uniti, il tasso di incarcerazione degli stranieri (legali e illegali) è inferiore a quello dei nativi. In Italia, invece, gli immigrati sono sovrarappresentati nelle carceri, ma occorre ricordare che mentre negli anni il numero degli immigrati è cresciuto significativamente, quello dei reati denunciati all’autorità giudiziaria è rimasto all’incirca stabile, suggerendo un legame assai tenue tra le due cose; ii) inoltre, poiché la maggior parte degli immigrati nelle nostre prigioni sono irregolari, essi non possono accedere alle misure alternative, come gli arresti domiciliari, in quanto sprovvisti di una residenza. La singola riforma più importante per ridurre la delinquenza tra gli immigrati consiste nell’eliminazione del reato di immigrazione clandestina. Se uno viola legge con la sua stessa presenza sul suolo italiano, è facile che finisca nelle mani delle organizzazioni criminali: per privarle di manodopera a basso costo, dovremmo evitare di spingergliela in braccio.

Se, nonostante tutto, continuate a pensare che i negri puzzano (ancorché abbiano la musica nel sangue), allora dovreste fare pace con voi stessi. C’è un modo semplice per ridurre i flussi in entrata: anziché lasciare che i potenziali lavoratori raggiungano un posto di lavoro in Italia, consentire all’impiego di spostarsi nei loro paesi di provenienza. Fuor di metafora, l’unico modo sensato di “aiutarli a casa loro” è quello di rimuovere gli ostacoli che impediscono ai beni e ai servizi prodotti altrove di essere venduti ai consumatori italiani: dazi, regolamentazioni e politiche contro le delocalizzazioni. A parità di reddito nominale, tutti potranno consumare un paniere più ampio di beni e servizi perché ciascuno si specializzerà nelle produzioni in cui ha dei vantaggi comparati. Questo processo di riallocazione dei fattori si realizza attraverso trasformazioni che, nell’immediato e localmente, possono apparire dolorose: per esempio la chiusura di impianti produttivi in un luogo per trasferirli in un altro paese. La continua migrazione e ricomposizione dei fattori della produzione non è un vizio del sistema: è la sua caratteristica principale ed è la dinamica attraverso la quale si produce quel guadagno di efficienza di cui parlavamo, e che pone le basi per la creazione di nuovi e diversi posti di lavoro anche nelle zone originariamente colpite dalle crisi.

Adesso, però, dimenticatevi tutto quello che avete letto e concentratevi su queste semplici parole: muoversi è la prima delle libertà umane. Qualunque norma che impedisca agli esseri umani di spostarsi e di concludere liberamente accordi con altri adulti consenzienti (per esempio accettando un lavoro) rappresenta una limitazione della libertà umana. Parafrasando Bryan Caplan, la legge italiana tratta come criminali persone che si macchiano dell’orrenda colpa di vendere ombrelli in Stazione Centrale a Milano o raccogliere i pomodori in Sicilia. Andrebbero tutelati, non puniti. Perché, facendolo, ci rendono un po’ più ricchi. E, soprattutto, un po’ più umani.

da Il Foglio, 13 giugno 2018

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