EU-Trump: Le “guerre commerciali” non finiscono mai bene

I dazi sono tasse che alzano il prezzo delle merci: i primi a rimetterci, dunque, saranno i consumatori

6 Aprile 2017

La Stampa

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Nelle trincee della Prima guerra mondiale, smarriti in un orrore sconosciuto, i soldati si studiavano a vicenda. In situazioni relativamente calme, capirono che se uno non avesse sparato così nemmeno avrebbe fatto l’altro. Per la disperazione dei comandi centrali, mettevano in atto la strategia del «pan per focaccia»: reagire solo se provocati, rispondere colpo su colpo, e mai un colpo di più.

In quella che, parole sue, è una «guerra commerciale», per ora Donald Trump, che pure ha la delicatezza del sergente Hartman di Full Metal Jacket, non è andato oltre al «pan per focaccia». Gli Stati Uniti si muovono all’interno delle regole del Wto. Da anni discutono con l’Unione europea per una direttiva che, col pretesto di bloccare l’importazione di manzo trattato agli ormoni, di fatto sbarra la strada a tutte le carni americane (regolarmente vendute in Giappone, Corea del Sud, Canada). Nel 2009 è stato raggiunto un accordo che garantirebbe l’accesso al mercato unico alla carne non trattata. Ma secondo gli allevatori americani, ai quali hanno fatto eco prima Obama e ora Trump, l’Ue non rispetta neppure quello. Di qui i dazi minacciati su importazioni per un valore di 100 milioni di dollari: poca cosa rispetto ai 587 miliardi di importazioni europee negli Stati Uniti. Ma una valanga può cominciare con un fiocco di neve.

Le «guerre commerciali» raramente finiscono bene. Siccome coinvolgono non i soldati nelle trincee, ma generali che guardano la battaglia con confortevole distacco, il passo dal colpo su colpo all’escalation è sorprendentemente breve. Nel 1930 i repubblicani adottarono la tariffa Smoot-Hawley, che esacerbò la grande depressione. Di per sé, quel provvedimento portò a un modesto aumento del prezzo relativo delle importazioni, in un’epoca in cui queste ultime valevano appena il 4% del Pil. Quella mossa però giustificò il ricorso a misure di ritorsione da parte dei Paesi europei. L’agricoltura americana, fortemente esportatrice, ne soffrì enormemente. A suon di «pan per focaccia», la contrazione dell’economia mondiale si fece ancor più marcata: lo scambio internazionale crollò del 26% e la produzione industriale mondiale si ridusse del 32%, fra il 1930 e il 1932.

Oggi i Paesi europei avrebbero a disposizione una straordinaria occasione per evitare di prendere quella strada: impedire a Trump di avere ragione, in punto di merito. Questo non significa biasimare a parole il protezionismo americano: semmai prendere sul serio l’accordo del 2009, aprendo i nostri mercati alle carni Made in Usa.

I dazi sono tasse che alzano il prezzo delle merci: i primi a rimetterci, dunque, saranno i consumatori americani che apprezzano i prodotti colpiti. Essi verosimilmente trasferiranno i loro consumi su beni simili (acqua tal dei tali invece che San Pellegrino), che non avrebbero comprato se il prodotto europeo avesse mantenuto il prezzo iniziale.

L’effetto del blocco alle importazioni di carni americane è più radicale ma simile: si impedisce che il consumatore possa acquistarle.

Le «protezioni», insomma, impongono anzitutto un trasferimento di ricchezza dai consumatori ai produttori di un certo Paese: questo è il loro effetto principale. Rendendo più agevole ai produttori il confronto con la concorrenza internazionale, riducono lo stimolo ad essere efficienti. Perciò certi gruppi d’interesse ci tengono tanto.

«Il libero scambio, una delle più grandi benedizioni che un governo possa impartire al suo popolo, è impopolare quasi in tutti i Paesi». Così Macaulay, ne11824. Se è vero tutt’oggi, è per la straordinaria presa di alcune lobby. Non solo nell’America di Trump.

Da La Stampa, 6 aprile 2017

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