L'eterno ritorno delle chiusure obbligatorie dei negozi

C'è evidentemente solo una cosa che, in Italia, è più difficile che fare le riforme: preservarle

13 Luglio 2015

IBL

Argomenti / Diritto e Regolamentazione

C’è evidentemente solo una cosa che, in Italia, è più difficile che fare le riforme: preservarle. 

Al Senato, infatti, si sta discutendo la proposta, già approvata alla Camera, di reintrodurre 12 giorni di chiusura obbligatoria per gli esercizi commerciali. La liberalizzazione del commercio è stata in Italia un lungo percorso: avviata da Bersani negli anni Novanta, la completò il governo Monti. Fu forse uno dei pochi provvedimenti di quell’esecutivo che andasse davvero e compiutamente in direzione della “crescita”, a parole da tutti agognata. Sarà per questo che lo si mette in discussone.

I nostri rappresentanti non si limitano a voler obbligare a chiudere gli esercizi commerciali delle nostre città: fra le attività a cui l’obbligo non si applica, non figura  il commercio on line.

Intendiamoci.  E’ chiaro che la proposta non ha intenzione di oscurare per 12 giorni eBay o Yoox. Si può sostenere che, dato l’ambito di intervento, il commercio elettronico è escluso per definizione, dato che è già disciplinato con altre leggi.

Tuttavia, l’ambiguità e il semplice equivoco su questo punto sono emblematici di una legislazione che, nel tentativo di imbrigliare la realtà, supera la frontiera dell’assurdo.

La volontà di ripristinare alcuni obblighi di chiusura risponde principalmente alla preoccupazione dei negozi di vicinato di non reggere la concorrenza con gli esercizi di medie e grandi dimensioni. E’ l’antica paura del supermercato e dell’ipermercato, che riescono a reggere aperture continuate e che combinano un’offerta più ampia con prezzi più contenuti. 

Davvero le difficoltà del piccolo commercio al dettaglio si possono superare obbligando  i “grandi” a stare chiusi dodici giorni all’anno?

Che i “grandi” tengano la saracinesca abbassata non ci assicura affatto che i “piccoli” recuperino clienti. Non è detto che gli scambi che in quei giorni non avverranno, al supermercato, avranno luogo, invece, in altri giorni in drogheria. 

L’e-commerce dimostra con la sua stessa esistenza quanto velleitari siano oggi i tentativi di utilizzare gli orari d’apertura per garantire a qualcuno il miraggio di una rendita. L’esistenza e la facilità di accesso a un negozio mondiale aperto in ogni momento vanifica ogni tentativo di indirizzo ai consumi attraverso la disciplina degli orari.  Pensare di aiutare i piccoli commercianti, i quali possono essere essi stessi venditori on line (e talvolta lo sono, con grande efficacia), ripristinando giorni di chiusura obbligatori al commercio vuol dire non rendersi conto di quali siano, oggi, le sfide al commercio tradizionale avanzate da quello virtuale.

L’autonomia nello scegliere quando aprire o chiudere consente probabilmente una più efficace soddisfazione dei consumatori. Sta agli esercenti decidere autonomamente i giorni e gli orari di apertura: sulla base di valutazioni delle preferenze dei consumatori che sono solo loro, nel bene o nel male. 

Il divieto di apertura è, per definizione, una limitazione della libertà di scelta. Meno libertà di scelta per l’esercente vuol dire meno opportunità per il consumatore.

Ancora una volta, il nostro Parlamento mette mani a una norma che pensa soltanto a dare un contentino (peraltro, modesto) a una categoria: i piccoli dettaglianti. I consumatori, per il legislatore, sono solo un dettaglio. Forse è per questo che è così difficile fare, e preservare, le riforme.

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