L'avventura di Gianfranco Miglio nei meccanismi segreti del potere

A cent'anni dalla nascita: oltre la breve stagione di "ideologo delle Leghe" uno dei nostri maggiori scienziati sociali, grande imprenditore culturale

10 Gennaio 2018

La Stampa

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Sono passati quasi trent’anni da quando Gianfranco Miglio, uno dei più rispettati scienziati della politica del nostro Paese, planò in televisione diventando per tutti «l’ideologo delle Leghe». Il movimento nordista, allora generalmente avversato, fu il primo a sfoderare una rappresentanza con qualche incertezza sui congiuntivi. E accanto a loro un signore di settant’anni, mai fotografato senza cravatta, che per tre decenni era stato preside di Scienze politiche alla Cattolica e che parlava come un libro stampato.

Gianfranco Miglio, di cui domani ricorre il centenario della nascita, è morto nel 2001. Da allora ha ricevuto giusto qualche omaggio di carattere toponomastico. La breve parentesi da uomo politico, che gli valse ampia riconoscibilità come formidabile oratore televisivo, capace di esprimere concetti complessi con rotonda semplicità, non ha giovato alla memoria dello scienziato sociale. Che è fra i massimi prodotti dal ‘900 italiano.

Miglio aveva studiato all’Università Cattolica, a Milano, pur provenendo da una famiglia repubblicana e laica, per cercare «riparo all’influenza dottrinaria del fascismo», come spiegò in una lunga intervista ad Alessandro Campi e Alessandro Vitale. La sua formazione fu giuridica, impregnata di giuspubblicismo tedesco. Ma i suoi vasti interessi (basti pensare che, oltre a Scienza politica, insegnò Storia delle istituzioni, Storia delle dottrine politiche, Storia dei trattati e Dottrina dello Stato), lo condussero presto al Trattato di sociologia generale di Vilfredo Pareto. Forse proprio dal confronto con quell’opera smisurata gli venne la passione di arrivare all’osso dei fenomeni sociali e politici, cercandone le «regolarità». Appresa la lezione di Pareto e Mosca, lo studioso lariano non si sarebbe certo fermato lì: e nel sistematico rigetto di quelle che definiva «anti-realtà», cioè i tentativi di edulcorare alcuni aspetti scomodi dell’obbligazione politica, introdusse in Italia il pensiero di Carl Schmitt. Il quale lo definì il politologo più colto d’Europa.

Lo Stato moderno è stato il centro della sua avventura di studioso. La collana da lui diretta per Giuffré, dove apparvero gli scritti su Hobbes di Schmitt e Terra e potere di Otto Brunner e riapparvero dopo anni di oblio gli economisti della «scuola austriaca», si chiamava «Arcana imperii». Questa necessità di alzare il velo sul meccanismo del potere lo indusse a un’intensa attività di imprenditore culturale: fondò l’Istituto per la Scienza dell’Amministrazione pubblica e la Fondazione italiana per la storia amministrativa.

I suoi scritti più importanti furono riuniti nei due volumi Le regolarità della politica (1988). Più di recente Davide Bianchi e Alessandro Vitale hanno curato due raccolte di Lezioni per il Mulino (2011). Negli anni ’90 Miglio fu autore di libri ad ampia diffusione che sarebbe sbagliato considerare saggi di pronto consumo: nel 1997 discusse di questioni ben oltre il raggio dell’attualità con Augusto Barbera, in Federalismo e secessione.

Se lo Stato moderno è una «invenzione» di straordinario successo, esso è nondimeno un fenomeno «storico», localizzato, uno soltanto dei tanti modi in cui si è detta la politica. Della notissima formula weberiana, per cui lo Stato è il monopolista della violenza legittima, per Miglio l’accento non va messo sulla legittimità ma sul monopolio. «Soltanto chi ha il “monopolio della forza” vede la sua forza diventare legittima». L’età moderna è segnata da una crescente monopolizzazione della forza, che tuttavia non necessariamente era senza alternative. Queste ultime erano la Lega anseatica, la Repubblica veneziana, la Svizzera, realtà politiche «rette da un minimo di istituzioni», a confini variabili e maglie larghe, in cui una pluralità di centri decisionali resistette, finché ha potuto, alle tendenze accentratrici. Su questo sfondo storico, «la irriducibile opposizione fra Stato e mercato era stata riformulata da Miglio nei termini di una dicotomia politica fra “obbligo politico” e “obbligo contrattuale”» (così Marco Bassani).

Da principio, forse a Miglio parve che un riequilibrio dei «sistemi basati sulla minaccia» verso i «sistemi basati sullo scambio» fosse un’altra «anti-realtà». Ma una diagnosi precoce della «crisi dello Stato» gli schiuse nuovi orizzonti.

Già nel 1964, quando la Repubblica italiana era giovane e bella, egli aveva individuato due segni del declino di un regime politico. Il primo era «il divario fra il grado di efficienza amministrativa» desiderato dagli elettori e quello effettivamente garantito dagli eletti. Il secondo era la trasformazione dei capi in semplici «strumenti necessari di particolari rapporti di interesse», l’evoluzione «clientelare» della legittimità. Una descrizione della crisi del nostro Stato tutt’oggi perfetta.

da La Stampa, 10 gennaio 2018

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