«L'America ha il dovere di combattere contro Al Qaeda»

Arthur Brooks, Presidente dell'American Enterprise Institute, è stato ospite dell'Istituto Bruno Leoni per due conferenze a Roma e Milano

13 Giugno 2014

Corriere della Sera

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Arthur Brooks, 50 anni, è il presidente dell’American Enterprise Institute: prima ha fatto l’economista e prima ancora il musicista (ha suonato il corno francese nell’orchestra sinfonica dí Barcellona). Ora ha deciso di alzare le sue ambizioni e di ragionare su orizzonti lunghi. Per riassumere: nel giro di qualche anno intende cambiare i connotati dell’America. Vuole riportarla a quello per cui è nata: libertà, libera iniziativa, meritocrazia. Non tanto per motivi economici: per ragioni morali. L’attualità politica, dunque, la inquadra in prospettive non contingenti.

Sull’Iraq dice che il Paese «è in una spirale fuori controllo perché gli Stati Uniti si sono ritirati prematuramente con l’obiettivo di incrementare la popolarità domestica (del presidente Obama, ndr).
Il risultato è prevedibile, gli iracheni avrebbero meritato qualcosa di meglio. Non dobbiamo mantenere forze in Iraq per sempre, dobbiamo però onorare i nostri impegni a combattere Al Qaeda». Sulla sconfitta inattesa del leader repubblicano Eric Cantor alle primarie della Virginia, a opera di un professore sostenuto dai Tea Party, commenta che «la politica è local: se sei un leader nazionale devi fare molta attenzione alla contraddizione che si crea. Nella vicenda Cantor non bisogna però leggere niente di particolarmente significativo: non spiana la strada ai Tea Party La verità è che tra i conservatori americani si sta sviluppando un movimento di riforma, una New Right. Qualcuno deve interessarsi della povera gente, di chi non ha voce e non ha potere. E combattere per essa. La sinistra non lo fa. E i Tea Party sono per definizione ribelli contro qualcosa. Questo nuovo movimento è invece popolare».

Il cuore teorico del movimento di riforma è proprio l’American Enterprise Institute (Aei) di Washington, uno dei think tank più influenti d’America: ci lavorano più di 200 persone, un budget annuo di 5o milioni di dollari. È da lì che Brooks ne tira le fila, non come costola del partito repubblicano – «io sono un indipendente», dice – ma con l’obiettivo di fare riconquistare il centro della politica a una serie di valori, prima ancora che di politiche. In America e fuori, tanto che in questi giorni è in Italia per una serie di incontri dell’Istituto Bruno Leoni e per presentare il suo libro, «La via della Libertà» (Rubettino).

Durante questa lunga intervista, Brooks dice che negli Stati Uniti ci sono quattro città che in qualche modo si ergono ad alternativa a Dio (nella definizione di Tommaso d’Aquíno): New York per il denaro, Washington per il potere, San Francisco per il piacere e Los Angeles per l’onore inteso come successo. Per molti versi, sono i volti di oggi della sinistra liberal americana. «Trovi decadenza ovunque mentre non trovi virtù ed eroi», dice. Una pratica di lavoro all’Aei, dunque, è l’esame di coscienza, per garantire che il proprio lavoro sia capace di beneficiare la gente più di se stessi. «Ma non con visioni di sinistra. Per esempio, è necessario affermare che il Welfare è un male per le persone», nel senso che le impoverisce nello spirito e nell’iniziativa. La chiave è insomma l’approccio morale, la ricostruzione delle basi della cultura americana intese come libertà di parola, di impresa, di coscienza -, individualismo, proprietà privata, vero mercato (non monopoli e intrecci tra ricchi e Stato), meritocrazia.

Brooks sostiene che il capitalismo deve tornare a essere quello che era, un sistema di mercato che beneficia i poveri, i quali attraverso la competizione e il premio del merito possono cambiare la loro condizione. È attorno a questo obiettivo che intende dare sbocchi alle aspirazioni degli americani: «Un’unità intorno alla virtù» capace di creare qualcosa «che somigli al movimento dei diritti civili degli Anni Sessanta, un movimento di ideali che vada al di là della politica». Un’agenda del genere è decisamente ambiziosa ma non è ancora una piattaforma. È però probabilmente la novità emergente nel dibattito politico-culturale americano, certamente tra i conservatori alla ricerca di nuovi riferimenti dopo le rotte elettorali sofferte per mano di Barack Obama. Idealismo conservatore: in casa, osservando la sconfitta di Cantor, nel mondo, davanti alla tragedia d’Iraq.

Dal Corriere della sera, 13 giugno 2014

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