In lode della libertà del telecomando

L'11 giugno del 1995 sembra essere scomparso dalla memoria comune degli italiani però, forse, bisognerebbe recuperarlo

22 Luglio 2025

Nuova Antologia

Ilaria Caporale

Francesco Magris

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Molto spesso, un avvenimento del passato si vede attribuire l’etichetta di “evento storico” solo molto tempo dopo, quando la macchina preposta alla produzione delle narrative ufficiali, che alla fine si saldano in quello che definiamo l’edificio della Storia si è opportunamente messa in moto e ha stilato il suo Vangelo. Fenomeno questo certamente comprensibile qualora si osservi che gli effetti di ogni episodio storico si possono misurare solamente ex-post, ossia dopo un lasso di tempo sufficientemente lungo e tale quindi da permettere la raccolta e l’elaborazione di dati e teorie. Rimarrà tuttavia sempre problematica l’applicazione eli metodologie d’inferenza corrette e non viziate da alcun bias con cui identificare ed isolare le relazioni di causalità da quelle di semplice correlazione. Altre volte invece si trascurano o enfatizzano degli eventi storici sulla base di pregiudizi ideologici, che possono condurre a letture ed interpretazioni della Storia non più garantite dal sigillo dell’imparzialità, o d’interessi di parte i quali, a loro tutela, esigono e spesso impongono una rilettura faziosa del passato.

Nel suo ultimo libro Meglio poter scegliere Alberto Mingardi effettua un tuffo nel passato e ripercorre quell’episodio che l’11 giugno 1995 vide al centro del dibattito nazionale dodici referendum abrogativi su cui il popolo italiano fu chiamato a pronunciarsi. Se quell’appuntamento elettorale all’epoca in cui si svolse diede luogo ad un aspro e violento scontro politico, innescando forti e passionali conflittualità e viscerali idealità e lealtà ideologiche, la sua memoria sembra oggi essere stata quasi del tutto cancellata e riavvolta nel nastro triturante dell’oblio collettivo.

Fra i dodici quesiti referendari, a polarizzare il dibattito furono in particolare i tre a tema televisivo che ambivano ad abolire altrettanti commi della legge Mammì, ma che di fatto miravano a ridimensionare lo spazio che il gruppo Fininvest occupava nel settore televisivo per mezzo della triade Italia 1, Canale 5 e Rete 4. Ricordiamo che uno dei quesiti mirava a rendere impossibile ad un singolo operatore privato il controllo di più di due concessioni televisive nazionali, un altro la vendita di spazi o tempi pubblicitari per conto di più di due reti nazionali, mentre il terzo si proponeva di vietare l’estensione della pubblicità durante la trasmissione di un film oltre all’intervallo fra il primo e il secondo tempo. E ricordiamo con pure maggiore enfasi come appena nel giugno dell’anno precedente – era il 1994 – le elezioni politiche avevano decretato l’affermazione del partito fondato e guidato dal proprietario del gruppo Fininvest, Silvio Berlusconi, il quale, pure per mezzo di un’azzeccata tessitura di alleanze programmatiche e strategiche era stato catapultato alla guida del paese.

L’opposizione di sinistra, che da quella sconfitta elettorale ne era uscita incredula e frastornata, nel 1995 si stava tuttavia già ricompattando e riorganizzando, non solo alla luce delle tensioni insanabili che stavano emergendo all’interno dei partiti di maggioranza, ma pure in virtù di una sciatteria e degrado di natura sostanziale e formale con cui alcuni leader della coalizione violavano i tradizionali protocolli istituzionali, a tratti anche col supporto di un linguaggio e di una gestualità attinti, senza complessi e in maniera a volte autocompiaciuta, al vernacolare. Ma l’angolatura privilegiata da cui proveniva l’attacco dell’opposizione era quella della virulenta denuncia del conflitto d’interessi, condotta in solida sinergia con una consistente fetta della società civile e la quasi totalità della classe intellettuale. Nel mirino vi era l’incompatibilità sul piano delle regole democratiche e della leale concorrenza politica del doppio ruolo ricoperto da Berlusconi quale leader politico e allo stesso tempo magnate della televisione. Tale dualismo, secondo gli avversari dell’allora capo del governo, permetteva alla coalizione guidata da Berlusconi di ricorrere al mezzo televisivo quale strumento di propaganda politica – grazie all’operato di un selezionatissimo e ai quei tempi all’avanguardia staff adibito alla gestione della comunicazione e dell’immagine – col risultato di manipolare e condizionare le scelte politiche degli utenti/elettori.

L’esito dei referendum è noto. La speranza di dare una spallata definitiva al governo Berlusconi, azzoppandone l’impero mediatico fallì. Se da un lato i tre referendum televisivi raggiunsero facilmente il quorum, a testimonianza della loro capacità di appassionare e mobilitare l’opinione pubblica, dall’altra il numero delle schede infilate nell’urna decretarono inequivocabilmente la vittoria dei no. In tal modo l’immagine e la credibilità politiche di Berlusconi si ritrovarono inaspettatamente rilanciate, paradossalmente proprio grazie alla scelta da parte dell’opposizione di trasformare i quesiti referendari, di fatto, in un referendum contro la sua persona.

Nel suo libro, Mingardi ripercorre questa vicenda politica ed elettorale dichiarando esplicitamente di perseguire un duplice obiettivo. Da una parte infatti rivendica il grande interesse scientifico che si cela dietro la riesumazione dal cimitero della Storia di questo episodio che, sebbene all’epoca produsse conseguenze dirompenti curiosamente venne in seguito relegato ai margini della cronaca italiana. Dall’altro lato, Mingardi concentra e indirizza i suoi sforzi ai fini di cogliere il lascito più profondo e duraturo di quegli eventi, un lascito che si estende ben al di là della pura contingenza storica in cui si verificarono. A tal fine, l’autore si spinge fino al punto di elevare quella vicenda referendaria ad esempio paradigmatico per tutta una serie di dinamiche politiche e culturali che spesso sfuggono ad uno sguardo superficiale. Non a caso, agli occhi di Mingardi, la fallimentare strategia referendaria messa in atto fu l’inevitabile frutto di quella diffusa miopia che impedisce, al momento di valutare le conseguenze di determinate azioni, di discernere, come scrive Frédéric Bastiat fra «ciò che si vede e ciò che non si vede», ossia di cogliere non solo i loro effetti immediati e facilmente anticipabili, ma pure quelli differiti e meno evidenti.

Mingardi si lancia dunque in questo libro in una profonda analisi dell’ambivalente rapporto fra media e politica, media e mercato ma soprattutto media e cultura e media e libertà. Se sul piano politico ed economico sono ben noti i vantaggi derivanti dal possesso di un monopolio o dal ricoprire una posizione dominante sul mercato delle frequenze, questa continuità tuttavia si arresta bruscamente sul piano culturale e su quello della, o meglio delle, libertà.

La televisione è da sempre criticata, soprattutto negli ambienti intellettuali e accademici i quali guardano con disprezzo, talvolta palese, talvolta paternalistico, a tutto quello che transita al suo interno, spesso etichettato come “bassa cultura” televisiva, se non addirittura kitsch o trash, cui Umberto Eco ha consacrato memorabili pagine. Si viene in tal modo a creare una frattura sempre più ampia tra ciò che viene considerato “legittimo” e “degno” sul piano culturale e ciò che viene effettivamente fruito da quella parte consistente della popolazione che, sin dai testi fondativi di Gustave Le Bon e di José Ortega y Gasset, viene identificata come “massa”. In particolare, le televisioni di Berlusconi sono reiteratamente accusate di aver creato un sistema chiuso e paternalista, che tratta il cittadino come spettatore passivo invece che come soggetto capace di pensiero critico. Esse sono accusate da parte di quella stessa alta borghesia colta e delle sue élite intellettuali le quali non mancano mai di deridere e stigmatizzare i programmi rivolti alla piccola e media borghesia, senza peraltro interrogarsi sul motivo per cui alcuni contenuti riscuotano da sempre un ampio successo. In fondo, per Mingardi si tratta di una forma d’imperituro disprezzo per il gusto popolare e per l’idea che le masse possano educarsi da sole e scegliere i loro consumi culturali e d’intrattenimento.

Ed è a questo punto che si giunge alla tesi centrale di Mingardi. Egli non vuole certo riabilitare programmi televisivi di dubbia qualità ma sottolinea tuttavia che ampliando il numero di palinsesti, canali e frequenze accessibili, si perviene ad ampliare pure quella che definisce «la libertà del telecomando». Una ben misera e quasi svilente libertà per chi, scrive Mingardi, può permettersi di «andare il venerdì a teatro, il sabato al cinema e il martedì ha l’abbonamento ai concerti di musica da camera». Una libertà invece preziosa per chi tutte queste opzioni non può permettersele e dopo una lunga e faticosa giornata di lavoro, prima di addormentarsi, l’unico lusso cui può aspirare è poter scegliere fra uno spettro di programmi televisivi il più ampio possibile. Questa «libertà del telecomando» Mingardi non a caso la include nell’insieme delle libertà “concrete” e il cui esercizio richiede il semplice buon senso anche delle persone comuni.

Il nuovo libro di Mingardi si inserisce dunque con forza nell’attualità. L’autore non difende solo il diritto di scegliere anche contenuti ritenuti “lassi” o commerciali, ma rivendica pure la necessità di una vera competizione tra i mezzi di comunicazione, senza troppe nostalgie per i tempi della programmazione centralizzata. Anche perché, se si afferma che la proliferazione dei social non è solo una semplice “patacca”, ciò significa riconoscere che la libertà di espressione passa anche attraverso nuovi linguaggi, nuovi formati e nuove logiche distributive. Va ricordato infatti che, secondo il Rapporto Censis 2024, oltre tre quarti dei giovani tra i diciotto e i ventinove anni si informa principalmente su Instagram, TikTok e YouTube.

Il palinsesto rigido di un tempo simbolo dell’ordine televisivo è stato dunque sostituito dalla fruizione personalizzata e senza un ordine prestabilito. Nonostante ciò la televisione tradizionale continua ad avere un grande impatto culturale, specialmente per i segmenti più anziani della società, a riprova che il modello di “intrattenimento popolare” lanciato all’epoca da Berlusconi sia ancora una delle principali fonti di consumo mediatico per milioni di italiani.

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