Imprese pubbliche: una domanda in cerca di risposta

Le imprese pubbliche non perdono mai, fino a quando non perdono troppo

23 Maggio 2017

IBL

Argomenti / Politiche pubbliche Teoria e scienze sociali

Che aria tiri, è abbastanza chiaro. Ieri l’amministratore delegato delle Ferrovie, Renato Mazzoncini, ha rilasciato una lunga e interessante intervista a uno dei maggiori settimanali finanziari. L’internazionalizzazione, la fusione con Anas, i risparmi. Per fortunata coincidenza, sempre ieri un gruppo di formatori della pubblica opinione riunito dal senatore Mucchetti celebrava le glorie dell’industria di Stato. Che rappresentano in tutto il mondo una consistente percentuale dei listini di borsa, hanno tassi di crescita consistenti, fanno importanti investimenti. Una forza storica, insomma.

Sono in molti a credere che le privatizzazioni siano state una parentesi e a guardare con interesse al presunto modello cinese: alti tassi di crescita economica, con elevata presenza dello Stato nell’economia (e, già che ci siamo, partito unico e una sana compressione dello spazio del dissenso). Non importa che questa elevata presenza dello Stato nell’economia sia già l’esito di un significativo processo di “liberalizzazione”. Lo Stato c’è e funziona: la conclusione è presto tratta.

Sarà. Noi siamo sconfortati da una sola e semplice ragione. Imprese pubbliche sono imprese nelle quali azionista è lo Stato: quelle azioni sono risorse del contribuente, che si decide di non vendere, di non liberare, seguitando a partecipare direttamente al governo di un’impresa.

Saremmo più che soddisfatti se gli statalisti, neo o vetero che siano, provassero a rispondere a una semplice domanda: perché? Perché la proprietà di certe imprese, e dunque il sostanziale monopolio in certi settori industriali, va garantito allo Stato? Quale è l’interesse pubblico che viene così soddisfatto?

Le imprese private, e quelle “privatizzate”, possono andare bene o male. Fare profitti o registrare perdite. Talvolta è merito, talvolta è colpa, di chi le guida. Altre volte ancora il bilancio fotografa imprevisti colpi di fortuna, o rovesci del caso. In un caso e nell’altro, le imprese private giocano coi soldi dei loro azionisti. Guadagna o perdi, questo è il capitalismo.

Le imprese pubbliche non perdono mai, fino a quando non perdono troppo. L’interesse di breve dei loro azionisti di controllo, cioè la classe politica pro tempore, è sorridere e rasserenare. La restituzione al mercato di quelle aziende è possibile solo in momenti di crisi, come l’Italia degli anni Novanta, quando l’effetto di anni di gestioni in perdita non è più occultabile.

Troppo spesso gli statalisti contrappongono all’azionista privato “reale”, magari miope e eccessivamente votato al breve termine, l’azionista pubblico “reale”. Rimpiangono grandi personalità del passato. Non ragionano pensando agli incentivi che fronteggiano i gestori attuali.

Perché il contribuente dovrebbe essere l’azionista di banche, assicurazioni, imprese di trasporto, compagnie di bandiera?

È questa la domanda alla quale vorremmo risposta. Non ragionamenti fumosi sulla lungimiranza del manager ideale che il politico ideale potrebbe in condizioni ideali collocare, con tutti i poteri del caso, al governo di un’azienda. Ma quali sono i vantaggi concreti per questa figura concreta, mai idealizzata, che è il singolo contribuente: cosa produce, a suo vantaggio, lo Stato imprenditore. Rimaniamo in attesa.

23 maggio 2017

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