Ex Ilva, l'acciaio di Stato non può essere per sempre

Quale sarà il destino dell'azienda siderurgica più importante e disastrata d'Europa?


9 Gennaio 2024

Il Secolo XIX

Carlo Stagnaro

Direttore Ricerche e Studi

Argomenti / Economia e Mercato

Quello di ieri è stato l’epilogo prevedibile di una concatenazione di eventi iniziata nel 2019. ArcelorMittal non ha sottoscritto l’aumento di capitale nell’ex Ilva richiesto dal governo perché non ne aveva né l’interesse né l’intenzione. Adesso il cerino è in mano al governo, che probabilmente ha poche alternative: ma per capire quale può essere il destino della siderurgia più importante e disastrata d’Europa, bisogna fare due passi indietro e capire come siamo arrivati qui. 

C’è, anzitutto, una causa scatenante: il disimpegno di Mittal inizia dopo l’estate 2019, quando il governo giallorosso dà continuità alla scelta del precedente gialloverde di sopprimere lo scudo penale che proteggeva gli amministratori dalle responsabilità precedenti al loro arrivo (e che aveva già tutelato anche i commissari governativi). Si è molto discusso, in questi anni, se quell’evento abbia realmente impresso una svolta, o se piuttosto non abbia fornito al colosso indiano il pretesto per sfilarsi da una situazione scomoda da cui aveva già deciso di uscire. Poco conta: in quel momento sono venuti meno i patti siglati sulla base degli esiti della gara svolta nel 2017 dall’allora ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, che vincolano Mittal a impegni stringenti su investimenti e occupazione. 

L’accordo, caldeggiato e reso possibile dai sindacati all’epoca guidati da Marco Bentivogli, Francesca Re David e Rocco Palombella, fu successivamente confermato dal governo gialloverde e approvato dai lavoratori. La fine di quella fase positiva, con l’eliminazione dell’immunità penale e la sterzata di ArcelorMittal, che nel frattempo si affida a Lucia Morselli, mette in moto l’attuale declino profondo e drammatico, che ha condotto l’azienda sull’orlo dell’insolvenza. 

Tutto ciò si colloca su uno sfondo più ampio, che vede, da un lato, un ripiegamento strategico di Mittal verso mercati extra-europei (a partire da quello indiano, affamato di acciaio come non mai); dall’altro, regole europee che rendono sempre più oneroso l’esercizio di acciaierie a ciclo integrale. In questo contesto, Mittal non aveva motivo alcuno, ieri, di mettere sul piatto i 320 milioni di euro richiesti, oltretutto diluendo la sua partecipazione. Ormai, per gli indiani vale la strategia del tanto peggio tanto meglio, al fine di minimizzare i costi di uscita.
 
È il governo che deve togliersi dal cono d’ombra proiettato da quella sciagurata decisione del 2019 e dai patti parasociali stretti allora, i cui contenuti non sono noti – e guardare oltre. Purtroppo, gli anni trascorsi hanno portato un deterioramento dell’ex Ilva, sia sul piano commerciale, sia su quello operativo. Acciaierie d’Italia non ha saputo approfittare del ciclo positivo di cui hanno beneficiato gli altri siderurgici e ora lo scenario è cupo, tra l’economia che rallenta e le norme Ue sempre più restrittive, che tra l’altro prevedono il graduale abbandono della distribuzione gratuita delle quote di CO2. Che fare, allora? 

A meno che il governo non sia pronto a mettere in liquidazione l’azienda – con tutte le conseguenze occupazionali sui dipendenti e sull’indotto – realisticamente si tornerà a una forma di controllo pubblico. Sono due le strade possibili: o la graduale crescita del socio pubblico, magari convertendo il debito in azioni per raggiungere la maggioranza del capitale, oppure il ritorno in amministrazione straordinaria. In entrambi i casi, è importante che nessuno si metta in testa di rincorrere la bizza dello Stato acciaiere. 

Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, si è impegnato nel Documento di economia e finanza a cercare risorse per abbattere il debito pubblico attraverso le privatizzazioni; sarebbe ben strano se volesse impegnare denari pubblici in una nazionalizzazione spericolata in un settore difficilissimo e iper-competitivo. A prescindere, dunque, dalle modalità formali, è cruciale che l’eventuale ritorno dell’Ilva nell’orbita pubblica sia accompagnato – anzi, preceduto – dalla ricerca di nuovi investitori industriali credibili. 

I documenti dei governi parlano spesso di salvataggi lampo, con la promessa di cedere non appena possibile gli asset acquisiti in via emergenziale, salvo poi dimenticarsene. Giorgetti sa benissimo – perché lo ha detto più volte – che lo Stato non è capace di fare l’imprenditore: è essenziale che renda chiaro fin da subito che questa volta è diverso e che, se statalizzazione dev’essere, non sarà per sempre, per il bene dei contribuenti e dei lavoratori. 

dal Secolo XIX, 9 gennaio 2024

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