Il volontariato non può essere un ordine

È un po' curioso che in un Paese nel quale si è fatto fuoco e fiamme per abolire i tirocini non retribuiti ora si pensi di reintrodurli, per il solo mondo del non profi

15 Maggio 2017

La Stampa

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Un «momento unificante» per i giovani. Questo sarebbe, secondo il ministro della Difesa Pinotti, il servizio civile obbligatorio. La naja serviva anche per «fare gli italiani», o perlomeno per costringerli a conoscersi gli uni con gli altri.

Ora si vorrebbe far svolgere lo stesso compito al volontariato. Le 300 mila associazioni non profit del nostro Paese provano la vivacità della società italiana nell’organizzarsi da sé, in vista di scopi avvertiti come importanti.

Il servizio civile obbligatorio garantirebbe a queste realtà un’ampia disponibilità di manodopera a titolo gratuito. È un po’ curioso che in un Paese nel quale si è fatto fuoco e fiamme per abolire i tirocini non retribuiti ora si pensi di reintrodurli, per il solo mondo del non profit. Chi faceva uno stage senza averne in cambio un compenso sperava in realtà di trarne benefici di carattere diverso: di imparare cose che avrebbero potuto essere utili nel prosieguo della vita lavorativa, di arricchire il proprio curriculum. A torto o a ragione, si è pensato che quella prassi generasse continui abusi.

Ora vorremmo imporre stage nel terzo settore, gratuiti e obbligatori. Chi ha a disposizione opportunità migliori sarebbe condannato a rimandare l’appuntamento di qualche mese, sperando che lo aspettino: eventualità rara, quando ancora non si ha, in senso proprio, una professionalità. Riducendo la libertà di scelta, diminuirebbe anche la probabilità di trovare un’occasione non di guadagno ma almeno di crescita nelle proprie competenze.

Il volontariato acuisce il senso di responsabilità, aiuta a simpatizzare con chi sta peggio di noi. Ma ciò avviene in larga misura perché è «volontariato»: perché le persone ci mettono per propria autonoma decisione tempo e fatica.

Il terzo settore vive grazie ai volontari, e a un più modesto nucleo di persone che invece ne ha fatto una professione. Per costoro la prospettiva di avere più collaboratori senza doverli pagare è allettante. E tuttavia non è detto che faccia bene alle loro associazioni. Potere usufruire di «lavoro regalato» è un po’ come avere a disposizione un flusso regolare di fondi assicurato dalle tasse. L’una cosa e l’altra ridurranno la pressione a cercare nuove risorse, quattrini o lavoro donato volontariamente. Attraverso questo processo la ricerca di fondi e volontari una associazione non profit ottiene conferma della bontà delle proprie scelte e del fatto di essere al servizio di uno scopo condiviso da altre persone. Ridurre questo stimolo non può far bene al terzo settore. I sussidi possono produrre aziende autoreferenziali, che esistono solo per percepirli. Lo stesso può fare il ricorso alla manodopera gratuita: tenere in vita associazioni che servono solo per impiegarla.

È sorprendente la leggerezza con cui si parla di tornare alla coscrizione, per quanto de-militarizzata. In Italia l’abolizione della leva obbligatoria è stata una riforma davvero bipartisan, nata durante il secondo governo Amato (ministro della difesa Carlo Scognamiglio) e accelerata nei tempi dal governo Berlusconi (ministro della Difesa Antonio Martino). Si riconosceva alle persone giovani il diritto di fare quel che desiderano della propria vita.

La leva civile assomiglia a una imposta: ti obbligo a lavorare, prelevo il tuo salario e lo trasferisco al tuo datore di lavoro. Difficile sostenere che sia un aiuto per il lavoratore obbligato, anche se il datore di lavoro è non profit.

Da La Stampa, 15 maggio 2017

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