Il valore dei dati? Un individuo diverso dall'altro

Il valore lo danno gli investimenti fatti per raccoglierli, renderli analizzabili, costruire modelli che sappiano fare il matching tra le preferenze degli utenti e le offerte del mercato, e viceversa.

25 Giugno 2018

Il Sole 24 Ore

Franco Debenedetti

Presidente, Fondazione IBL

Argomenti / Teoria e scienze sociali

“Per favore, sa indicarmi la strada per la Facoltà di Giurisprudenza?” La giovanetta a cui faccio la domanda, prima mi guarda tra il sorpreso e il diffidente, e poi: “in fondo a questa strada, giri a sinistra….saranno cinque minuti”. Sono a Trento per il Festival dell’Economia, un susseguirsi fitto di incontri, tra auditorium, teatri, università: e avevo dimenticato lo smartphone in albergo. Quest’anno il tema era le nuove tecnologie: non c’è stato uno degli eventi a cui ho assistito, in cui, parlandosi di Big Data, mancasse qualcuno che tirava fuori il solito refrain dei dati che ci vengono presi (sottratti, rubati, scippati….) e venduti. Una fallacia, come questo apologo può dimostrare.

Richiedendo l’informazione io ho lasciato tracce di me: la mia domanda ha avuto una permanenza nella memoria, magari è stata oggetto di commento, esiste la possibilità di reincontrarsi e riconoscersi. Ma che, in cambio dell’informazione, abbia lasciato qualcosa di mio, della mia identità, questo a nessuno verrà in mente di pensarlo.

Recuperato lo smartphone, l’informazione la richiedo alla app delle mappe. La traccia che lascio è che sono a quell’ora in quel punto della città di Trento e che voglio andare alla Facoltà di Giurisprudenza. Ho forse dato qualcosa di diverso allo smartphone e alla persona che ho interpellato? Di meno, perché con una persona, lo si voglia o no, si scambiano molte più informazioni; di più, perché le tracce consegnate allo smartphone sono per sempre.

La differenza sta in quello che è successo prima. Pensando che quella di una destinazione sia comunque una ricerca, la search engine ha digitalizzato le mappe, ha fatto il collegamento al GPS. E’ questo investimento che trasforma l’informazione richiesta e ottenuta in un dato: perché mai dovrebbe modificarne la natura, farla diventare un bene che mi viene sottratto? Il dato si presta ad altri usi, utili a me, per memorizzare le mie attività o richiedere altre informazioni, magari di interesse per altri (ristoranti, negozi). Ma quello che succede al valore del dato successivamente, non può modificare il suo valore iniziale: e questo è interamente dovuto all’investimento fatto all’azienda.

Perché il dato abbia valore bisogna che ci sia qualcuno che glielo riconosca: tipicamente chi vuole trovare individui da stimolare con una proposta economica. A tal fine bisogna costruire un modello che associ caratteristiche degli utenti e riposte alla proposta. Le caratteristiche non sono binarie (ad esempio se uno si pensa come uomo o come donna) ma risultano dall’insieme delle tracce lasciate (o non lasciate); e la risposta sta in una gamma che va dal fastidio all’acquisto. Il dato, la traccia che abbiamo lasciato, acquista valore quando dalla totalità degli individui si possono estrarre quelli che hanno le caratteristiche del modello: con il singolo dato o con i dati del singolo, non si fa nulla.

E l’utente, ne ha un vantaggio o un danno? Chi ritiene che la pubblicità aumenti la concorrenza tra imprese, obblighi alla trasparenza, fornisca informazioni, ma imponga il fastidio di ricevere offerte non desiderate, non ha dubbi: un sistema che invia messaggi selettivi aumenta il benessere del consumatore, perché aumenta la probabilità di ricevere informazioni utili, e diminuisce quella di essere infastiditi.

E’ del tutto improprio dire (Michele Ainis su Repubblica del 12 Giugno) che il dato è stato “scippato” all’individuo. E del pari l’accusa di materializzare il fantasma di Michel Foucault, il mondo come un Panopticon in cui “il fatto di poter sempre essere visto, mantiene in soggezione l’individuo”. Nessuno è singolarmente osservato, prima di tutto perché i dati sono anonimizzati. E poi perché a interessare non è l’individuo nella sua interezza, sono le caratteristiche che ne fanno il ricettore positivo a quello stimolo. Certo che questo ha influenza sull’individuo: ma l’accusa di “mercificare la nostra identità plasmandola e conformandola”, vale per ogni pubblicità. Se fosse vero che “al culmine del trattamento” si diventi “un unico individuo amorfo senz’anima né pelle”, a finire sarebbe la ragione di fare pubblicità (e forse del capitalismo stesso).

Per Viktor Mayer-Schoenberg e Thomas Range (Reinventing Capitalism in the Era of Big Data) se la concorrenza è limitata a quella tra Facebook e Google “il mercato cessa di essere un sistema decisionale decentrato e diventa un sistema a pianificazione centralizzata”. Ma sono centinaia le app che producono i modelli per effettuare le ricerche, e oltre 20 i social network importanti – tra cui Twitter, Instagram, Linkedin – a cui gli utenti, grazie al GDPR possono apportare tutti i propri dati. Ma obbligare i giganti a cedere parte dei propri dati per far crescere dei concorrenti, questo sì che sarebbe un sistema di pianificazione centralizzata.

da Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2018

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