11 Settembre 2025
Economy
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Diritto e Regolamentazione
«Noi oggi viviamo sotto il giogo di due burocrazie: quella italiana e quella europea. Sono diverse per storia e dovrebbe esserlo anche per “Carattere”». Sulla stratificazione normativa e l’iper-regolamentazione, Alberto Mingardi, che insegna Storia delle dottrine politiche all’Università lulm di Milano e dirige l’Istituto Bruno Leoni, ha le idee chiare: «La burocrazia italiana è spesso stata considerata pasticciona, approssimativa, troppo legata e troppo dipendente dalla politica, di cui si limitava a tradurre i desideri in regolamenti. La burocrazia europea ha una sua reputazione di serietà, di inflessibilità, ma è la somma necessaria delle tecnocrazie dei Paesi membri, e ai suoi vertici ogni tanto arrivano anche degli italiani».
Quanto è inefficiente, in Italia, ma anche in Europa, la burocrazia?
La burocrazia italiana è sospettosa nei confronti dell’impresa privata e tende a scoraggiare le iniziative con la moltiplicazione dei timbri e degli adempimenti. Ma al suo bizantinismo ha spesso corrisposto una sorta di lassismo, per quanto selettivo (le leggi in Italia, diceva Giolitti, si interpretano per gli amici e si applicano per i nemici), che però ne ha calmierato quelli che potevano esserne gli effetti più esiziali. La burocrazia europea al contrario è meno ostile, anche perché è fatta da persone che spesso hanno lavorato o andranno a lavorare per il privato. Ma è molto meno latina, meno flessibile.
Si parlano, tra di loro, queste due burocrazie?
Gli anni Duemila hanno visto una crescente armonizzazione di norme nazionali e norme europee. L’esito però mi sembra non sia il migliore dei mondi possibili: la nostra burocrazia è rimasta quella che era, ma ha dovuto adottare criteri più “europei”, cioè diventare meno flessibili.
Come invertire la rotta?
Servirebbe un Milei, cioè un leader che non abbia nulla da perdere e metta nel mirino i corpi burocratici. Cosa che però non è così facile da fare, perché una coalizione di partiti non può governare “contro” la burocrazia. Il ceto funzionariale è quello che ne traduce le intenzioni in norme e che ne controlla l’applicazione. !n un momento come questo, in cui il ceto politico è intellettualmente poverissimo, senza l’alta burocrazia i ministri non riuscirebbero neppure a spostare un fermacarte da una stanza all’altra.
Non sarà, questa, una questione di potere?
Certamente. La burocrazia è il vero potere e il più importante gruppo d’interesse. È vero nel suo caso quel che è vero di tutti i gruppi d’interesse che riescono a esercitare influenza sulla politica: a dispetto delle differenze, di ruolo e anche di visione del mondo odi appartenenza politica, di chi vi fa parte, essi sono uniti da un interesse comune. Che è aumentare il proprio potere. Questo è evidente quando pensiamo alle leggi: le norme sono scritte da tecnici del diritto per essere lette da altri tecnici del diritto, che sono gli unici a poterle “interpretare” a vantaggio di cittadini e imprese.
Una domanda un po’ provocatoria: più burocrazia equivale in un certo modo a più occupazione…
Da una parte, più burocrazia vuol dire più impiegati pubblici, cosa che fa piacere a coloro che sono “impiegabili” da parte dello Stato. Dall’altra, la complicazione normativa vuol dire anche più consulenti per le imprese e, spesso, per gli stessi cittadini. Alcune norme prevedono più o meno apertamente che senza ricorrere a un professionista, “cugino” del burocrate, non si possa far nulla… Il guaio è che questi consulenti sono pagati con denaro che le imprese non possono più impiegare altrimenti. Si assumono avvocati anziché ingegneri. Ci si protegge dal legislatore e dalle sue bizze, sottraendo risorse agli investimenti.
Cosa pensa degli errori di stima sugli impatti dei bonus edilizi? Quanto c’entra la burocrazia, in questo caso?
C’entra una figura, il Ragioniere generale dello Stato, che non ha fatto il suo mestiere, o che non l’ha fatto sino in fondo… ll problema è che se succede la stessa cosa, per ipotesi, in una grande banca privata, e il chief economist si rivela incapace, di solito riceve in pochi giorni una lettera di licenziamento. L’errore commesso dal Ragioniere Generale Mazzotta è costato decine di miliardi ai contribuenti e ha anche ridotto i margini di manovra dei governi degli anni a venire. Eppure non è stato allontanato dalla sua carica se non quando si è resa disponibile la presidenza di una partecipata. Ma un sistema nel quale chi sbaglia non paga come fa a selezionare le persone migliori?
E quindi? Quali strumenti concreti proporrebbe per rendere davvero “aperti” i dati pubblici e garantire un controllo democratico più efficace?
Attenzione a pensare che basti mettere i dati online e le cose si aggiusteranno. Il controllo democratico richiede un’opinione pubblica consapevole e intellettualmente vivace, che vuol dire centri studi indipendenti ben finanziati, in grado di fare le pulci al governo, e una stampa che sa entrare in questioni complesse, che le riesce a spiegare al lettore, che non si fa problemi a sollevare argomenti scomodi per il governo. Certo, si potrebbe partire proprio dal rendere disponibili le relazioni tecniche dei provvedimenti di spesa e le metodologie utilizzate per quantificarne l’entità. Forse, se fosse stato possibile verificare i dati sul Superbonus, qualcuno se ne sarebbe accorto e il dibattito pubblico sarebbe stato differente. Ciò detto, i giornali in Italia oggi sono tutti o quasi in crisi, dipendono in larga parte da sussidi e finanziamenti pubblici, vivono di riprese sui social spesso da parte degli esponenti politici che intervistano. Per molti centri studi privati lo Stato è un committente possibile come tanti. Che esercitino un po’ di sano scetticismo nei confronti della politica c’è solo il nostro istituto Bruno Leoni e GP Galli all’Osservatorio sui conti pubblici della Cattolica…
Quali sono, a suo avviso, le riforme più urgenti per liberare imprese e cittadini dal peso della burocrazia?
Le catene delle imprese e dei cittadini sono fatte con la carta dei ministeri. Abbiamo provato tante volte ad agire sullo stock di norme, che in Italia sono un numero imprecisato, con “ghigliottine”, testi unici, provvedimenti di semplificazione. Non hanno mai funzionato. Una “regulatory review” servirebbe, ma andrebbe condotta con criteri diversi dal passato per poter funzionare. Forse, in questo, l’intelligenza artificiale ci può aiutare per diboscare almeno quella parte della selva normativa in cui disposizioni contraddittorie si sono stratificate l’una sull’altra. Proviamo ad agire sui flussi. Una piccola riforma potrebbe avere a che fare con il modo in cui si scrivono le leggi, cercando di trovare un modo più chiaro ed evidente per citare i rimandi alle norme precedenti, così che il legislatore sia costretto a leggere le leggi che sta emendando prima di farlo… La madre di tutte le riforme sarebbe introdurre il principio delle clausole di tramonto. Mettere una data di scadenza alle norme, come lo yogurt. Il Parlamento legifera, ma cinque anni dopo deve votare per mantenere una legge oppure no. Cioè deve riesaminarla, vedere gli effetti che ha prodotto, confrontarsi con i portatori di interessi che ne hanno subito l’impatto. Non tutte le leggi sono i dieci comandamenti, di molte faremmo volentieri a meno, costruiamo un sistema per evitare che restino tutte scolpite nella pietra…
Ma in Italia non sempre le riforme semplificano…
Infatti. E ogni tanto anche le semplificazioni complicano…
E la digitalizzazione della PA, che viene spesso presentata come la soluzione ai mali della burocrazia?
A me sembra che la digitalizzazione della PA sia una cosa che conviene soprattutto alle imprese che vendono alla. PA software, ma che per ora ha prodotto poco o nulla in termini di semplificazioni. È senz’altro preferibile ridurre i tempi, ad esempio, per ottenere alcuni certificati, attraverso la tecnologia, ma semplificazione vuol dire eliminare la necessità di dotarsene…
Se dovesse stilare una “to-do lisi” liberale per ridurre la burocrazia in Italia, quali sarebbero la priorità assolute da inserire in agenda?
In primis, direi che i governi dovrebbero attenersi al principio “one in, one out”: una sorta di “pareggio di bilancio” normativo. Vuoi aggiungere una nuova regola? Benissimo: ma devi cancellarne una esistente. Il carico burocratico gravante sui cittadini sarà difficile da ridurre, ma almeno dovremmo dotarci di un vincolo forte perché non cresca ulteriormente.