8 Settembre 2025
QN – Quotidiano Nazionale
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Che cosa è quella che è stata definita la generazione Armani? «È la generazione dei nati negli anni Trenta e Quaranta che lascerà un vuoto incolmabile. Loro sono stati i costruttori. Dopo, è venuto qualche manutentore e molti sabotatori», avvisa Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni e professore all’Università Iulm.
Che cosa ha fatto la generazione di Giorgio Armani per l’Italia?
«Giorgio Armani era del 1934: è vero che la sua azienda la fondò quarant’anni, ma aveva respirato l’aria del boom economico. E gli anni del boom sono quelli in cui nascono imprese e prodotti al centro di quello che chiamiamo Made in Italy. La Nutella, Ferrari e Lamborghini, Missoni, Krizia e Valentino… – spiega –. O la Candy, che cambia la vita di milioni di famiglie con le sue lavatrici. Caprotti e Brunelli che inventano il supermercato in Italia. Migliaia di prodotti che non ricordiamo e che non si vedono, come le macchine per il confezionamento, ma che hanno avuto conseguenze straordinarie».
Perché allora e non più, dopo?
«Una ricerca dell’Istituto Bruno Leoni, curata da Nicola Rossi, ha dimostrato come il rapporto imprese che nascono e imprese che muoiono in quegli anni sia anomalo nella storia italiana. Ne nascono tante e quelle che sarebbero morte vengono lasciate morire: nell’immediato Dopoguerra, la politica non si esercitò nel tentativo del salvataggio, lasciò che morissero. Al tempo del boom, ogni anno, c’erano più nascite che morti, fino agli anni Settanta in avanti».
Com’è stato possibile questo slancio?
«Contò molto il fatto che lo Stato italiano era uscito con le ossa rotte dalla guerra, grazie all’ispirazione di Einaudi e alla saggezza di De Gasperi, la politica non volle fare grandi balzi in avanti. Lasciò fare: non si mise in mezzo, non cercò di indirizzare, correggere, aiutare l’impresa privata».
Il risultato fu il Made in Italy.
«Fanno impressione non solo i marchi (d’ogni tipo: da Cagiva a Chicco) e le cose, gli oggetti, i manufatti, che risalgono a quell’epoca, ma anche le grandi individualità. I nati negli anni ’30, gli Armani, che con la cenere della guerra costruirono un mondo di nuovo: di prodotti, di cose, di modi di vivere inimmaginabili fino a poco prima».
È l’età dei talenti, ma anche dell’Italia di provincia?
«Non è un caso se molti dei grandi capitani d’industria vengono da famiglie medio o piccolo borghesi, o dalla provincia. Si sa e si crede che ce la si può fare, se si hanno idee e progetti buoni il resto possa venire. Erano tempi buoni per persone coraggiose, che spesso stravolsero i piani».
In che senso?
«Nel senso che chi era affezionato all’idea della pianificazione pensava che l’Italia sarebbe stata risollevata dall’industria di Stato o dall’impresa pesante. Invece no. S’impara a riparare dentro un’impresa casa-e-bottega, o nasce nel garage, si ha subito presente che soddisfare la domanda dei consumatori può essere più importante di assecondare un piano quinquennale. E si immagina un Paese diverso, certo, le infrastrutture, che collegano un Paese scollegato. Ma l’Italia diventa un Paese industriale in meno di un ventennio, da agricolo che era, grazie all’imprenditoria privata».
Poi che cosa è accaduto?
«Poi è cambiata la politica e siamo cambiati anche noi. La generazione del dopoguerra pensava alla prima persona singolare: io. Grande creatività, grande fame, grande voglia di vivere, grande coraggio. La generazione successiva quando ha sognato in grande sognava alla prima persona plurale: noi. Col ’68 torna l’idea che la politica debba salvare il mondo, tutto il resto è miseria piccolo borghese».
La lezione degli Armani per l’oggi?
«Il mondo di oggi ci ha costruito con quello di ieri, ma non è detto che ci sia la stessa propensione al rischio. Se guardiamo agli anni Sessanta, molti imprenditori sono usciti dal nulla, senza capitale, ma con grandi progetti. Oggi le cose sono più complicate: il mondo è più grande e ci sono meno coraggiose possibilità di mettersi in gioco. C’è sempre coraggio per fare impresa, ma ci si butta di meno, perché tutti hanno qualcosa da perdere. Ci occupiamo di sostenibilità, ma non è detto che la sostenibilità vada assieme alle cose grandi».