Il neoliberismo come ricetta per tornare alla vera politica

Così il neoliberismo può nutrire un partito di massa (e cattolico)

21 Gennaio 2019

Il Giornale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

La lettera di Silvio Berlusconi al Corriere della sera ha rimesso in circolo nomi (Luigi Sturzo) e parole che erano sparite dal dibattito pubblico: «cattolico», «liberalismo», «liberismo», «popolare» e non «populismo».

Il governo Conte pare estraneo alla logica del libero mercato. In particolare, la componente grillina è convinta che esista una panacea per ogni male: lo Stato. Quando emerge un problema, quindi tutti i giorni, la prima soluzione dei 5 Stelle è chiedere più Stato o addirittura nazionalizzare. Niente mercato. Più assistenzialismo: il reddito di cittadinanza, erogato per stimolare i consumi, è un invito a non lavorare (se non in nero).

Ci vuole coraggio e determinazione per elogiare il libero mercato. Al neoliberismo sono imputati tutti i guai dell’Italia e del mondo: mercato del lavoro asfittico, crisi finanziarie, cambiamenti climatici, guerre. Per l’intellettuale medio, il «neoliberismo» (quasi sempre «selvaggio») è malvagio per definizione. Legato a oligarchie che agiscono nell’ombra, il neoliberismo si estende come una piovra e favorisce i ricchi, condannando i poveri a diventare sempre più poveri. Un’utile lettura, capace di rilanciare il dibattito, è il saggio di Alberto Mingardi, La verità, vi prego, sul neoliberismo (Marsilio, pagg. 398, euro 20).

Mingardi è direttore dell’istituto Bruno Leoni, think tank neoliberista, ma soprattutto è una persona fuori dal comune. Quando aveva dismesso da poco i pantaloni corti, bussava alla porta di un esterrefatto Gianfranco Miglio per discutere di autonomismo. Nello stesso periodo telefonava all’editore Leonardo Facco perché interessato ai titoli libertari del catalogo. Facco era sorpreso dalla voce immatura nella cornetta del telefono. Chiese a Mingardi di raggiungerlo a Treviglio e Alberto rispose che prima doveva chiedere il permesso ai genitori. Non so se siano leggende metropolitane, forse sì, ma poggiano su una base reale. Nel nuovo libro, Mingardi fornisce informazioni fondamentali per chiarire i termini della polemica nei confronti del neoliberismo. Innanzitutto ci chiede di riflettere su un punto: se il neoliberismo regna in Italia, com’è possibile che le tasse e il debito pubblico siano sempre in crescita? La politica neoliberista ha obiettivi opposti: affamare la bestia (meno soldi alla burocrazia), ridurre l’invadenza dello Stato, abbassare le tasse.

Poi l’autore ricostruisce la storia del neoliberismo, termine coniato dal giornalista Walter Lippmann nella Giusta società (1937). Il neoliberismo raggiunge il suo apice, come influenza diretta sulla società, con Ronald Reagan e Margaret Thatcher, due statisti-patrioti molto amati da Mingardi e molto meno da altri liberisti. Qui viene fuori, di nascosto, il carattere conservatore del liberalismo propugnato da Mingardi. Diciamo così, semplificando brutalmente: se una società è davvero libera, trova da sola le leggi e le istituzioni da conservare e intorno alle quali crescere. Per cui bisogna levare le catene alla società, lasciandola libera di esprimere le sue qualità. In una parola: deregulation.

Le pagine imperdibili occupano la seconda metà del libro. Mingardi infatti sa che alcune obiezioni non ideologiche al liberismo provengono dai liberali stessi. E non sono tutte quante insensate o imputabili all’ignoranza. Lasciamo stare le liberalizzazioni italiane che hanno avuto, in alcuni settori, come le farmacie, un solo risultato: buttare fuori dal mercato i piccoli investitori a vantaggio di fondi d’investimento italiani e più spesso stranieri. Possiamo mettere in conto questo e altri disastri all’incapacità e alla malafede della classe politica. La globalizzazione ha avuto esiti discutibili. La povertà è diminuita su scala mondiale ma questo non interessa all’operaio che ha visto delocalizzare la sua fabbrica o all’imprenditore spazzato via dalla concorrenza tedesca o cinese. Il liberismo è bello se lo applicano tutti. Ma se il mio vicino di casa, la Francia, salva le sue banche, e io, l’Italia, le lascio fallire, il liberismo è un po’ meno bello. Globalizzazione e immigrazione sono fatti indissolubilmente legati. La perdita del primato delle aziende occidentali e l’impressione di subire una colonizzazione al contrario sono le due grandi paure dei cittadini europei.

A questa valanga di critiche, Mingardi risponde punto per punto in maniera diversa da quelle stereotipate del politicamente corretto e del marxismo (povero Marx) aggiornato da Roberto Fico e compagni pentastellati. Ad esempio, Mingardi ci fa vedere che la parte più rilevante del problema italiano riguarda la stagnazione dell’economia (questione più vecchia dell’immigrazione) alla quale si aggiunge il potere eccessivo che attribuiamo allo Stato attraverso il welfare. L’economia non viaggia perché frenata da tasse e burocrazia che scoraggiano gli investimenti.

Lo Stato sociale agisce sempre in una logica truffaldina di ridistribuzione: leva a chi ha, non per dare a chi non ha, ma per nutrire se stesso. Lo Stato sociale è connesso alla rinascita del nazionalismo, che è sempre un po’ socialista perché gioca la sua partita proprio sul terreno della gestione del welfare. Questo non significa propugnare l’abolizione dell’intero Stato sociale ma ripensare la sussidiarietà e lasciare decidere al cittadino quali servizi vuole sfruttare e quali no.

Mingardi elogia la diversità, conseguenza dell’immigrazione, perché alla lunga porta più teste, più mercato, più specializzazione. Ma non utilizza l’immigrazione per «scardinare» e punire le società occidentali da torti storici ormai lontani. Anzi, la usa come lente d’ingrandimento di quei problemi che l’immigrazione non ha creato ma sottolineato: ordine pubblico, degrado del decoro urbano, scelte politiche nell’assegnazione delle case popolari, perdita di autorità della scuola e così via. Insomma: più che l’immigrazione dovremmo temere l’immigrazione gestita dallo Stato. Questo libro offre idee da valutare e soppesare con attenzione, nel corso del tempo. Sembra un pamphlet ma è scritto per restare. Il consiglio è di leggerlo comunque la si pensi. Soprattutto se si vuole scrivere l’agenda di un partito liberale (e cattolico) di massa.

da Il Giornale, 20 gennaio 2019

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