Il mito del Piano Marshall e le riforme (quelle vere)

Fissarsi sugli aiuti internazionali induce a perdere di vista quanto gli europei fecero da soli dopo la Guerra per rimettersi in piedi

4 Novembre 2024

L'Economia – Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

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I Piani Marshall non finiscono mai. Basta scorrere i titoli dei giornali. Il Rapporto Draghi disegnava «investimenti doppi rispetto al piano Marshall». Ma c’è chi ha proposto un «Piano Marshall per le competenze», altri un «piano Marshall a tutela del territorio» dopo l’alluvione in Calabria. Serve «un piano Marshall per la protezione civile». E in pochi dubitano che ci voglia un piano Marshall per il clima, per la sanità, naturalmente per l’Africa e poi per ricostruire, a guerra finita, l’Ucraina.

Anni fa l’economista Tyler Cowen scriveva che il piano Marshall era «soprattutto un mito». Oggi l’evocazione del generale George Marshall, segretario di Stato di Harry Truman, è un’operazione simbolica. E’ un modo per nobilitare una più prosaica richiesta di quattrini. Tanti, maledetti e subito. Del resto, il Piano Marshall sembra essere un caso di successo nella storia degli investimenti pubblici. La lettura più comune è quella secondo la quale furono i quattrini degli americani a ricostruire l’Europa dopo la guerra.

Un’interpretazione che ha legittimato molti altri «piani» di simile impianto, messi in atto nei Paesi in via di sviluppo. Con massicce iniezioni di aiuti allo sviluppo si desiderava incrementarne la dotazione di capitale, al fine di aumentare la velocità di crociera dell’economia. L’esito di gran lunga più rilevante fu consolidare le élite al potere, non sempre fra le più raccomandabili. Come ha dimostrato Bene Steil in un bel libro di qualche anno fa, la razionalità del piano Marshall era tutta politica: legare agli Stati Uniti, nel contesto della guerra fredda allora agli albori, i Paesi dell’Europa occidentale. Non a caso Palmiro Togliatti accusò De Gasperi di essersi «venduto agli stranieri».

Gli americani avevano piena consapevolezza che Italia e Germania Ovest non erano nella condizione di essere alleati militari rilevanti. Contava però la costruzione di una rete, da stendere sul mondo libero per proteggerlo dall’influenza sovietica. Una cortina non di ferro ma di dollari. Per paradosso, lo stanziamento maggiore, pro capite, fu a favore di due Paesi neutrali, Austria e Norvegia. Fra il 1948 e il 1952, l’Italia ricevette un miliardo e mezzo di dollari di allora, circa quindici miliardi di dollari di oggi, in aiuti. Ciò valeva, in media, il 2,3% del Pil italiano di quegli anni.

A che servì il piano Marshall? Come spiegava già Cowen, l’impatto degli aiuti sullo sviluppo fu modesto, rispetto alla crescita espressa da Paesi come Italia e Germania Ovest in quegli anni. Questo non significa che il contributo degli aiuti non vi fosse o fosse negativo, ma semplicemente che esso non pesò quanto il mito lascerebbe intendere. In molti hanno sostenuto che gli aiuti americani abbiano «ridotto i vincoli su componenti critiche della spesa pubblica corrente – spesa per la quale non era possibile mobilitare il capitale privato» (Benn Steil, Il piano Marshall: alle origini della guerra fredda).

I disavanzi di bilancio erano ingenti a causa della guerra: il piano Marshall avrebbe pertanto sopperito alla spesa per investimenti, dal momento che la priorità dei governi erano i bisogni sociali di carattere primario. Insomma, gli americani ci avrebbero aiutati ad avere più spesa pubblica di quanto ce ne potevamo permettere. Steil però sottolinea come «circa sei mesi prima che Marshall tenesse il suo famoso discorso a Harvard, il grosso dei danni che ostacolavano la produzione – quelli alla produzione elettrica e ai trasporti — era stato riparato e i livelli della produzione erano tornati (ad eccezione della Germania) a quelli del 1938. Inoltre, il peso della spesa pubblica sul reddito nazionale di fatto diminuì, in media, durante gli anni del piano».

Per Steil, il contributo più rilevante del piano Marshall fu ridurre i vincoli alle importazioni, compensando le scarse riserve in dollari che erano rimaste ai Paesi europei. Gli aiuti esteri servirono cioè per finanziare i disavanzi nella bilancia dei pagamenti, per acquistare beni e tecnologia Usa. Anche in questo caso, però, l’effetto fu limitato e non miracolistico.

Il problema del mito del Piano Marshall, ieri come oggi, è che fissarsi sugli aiuti internazionali conduce a perdere di vista quel che gli europei fecero, da soli, in quegli anni. Cioè ricostruire le istituzioni fondamentali dello Stato di diritto e dell’economia di mercato, fermare la svalutazione della moneta (la «linea Einaudi» in Italia), ripristinare la percezione che si potessero svolgere attività imprenditoriali in quei Paesi e quindi invogliarne di nuove.

Mancur Olson, anni fa, sostenne che la cosa migliore che poteva capitare a Germania, Italia e Giappone era perdere la guerra. Non solo perché così vennero sradicati regimi odiosi, ma perché con essi se ne andarono buona parte delle incrostazioni corporative che ingessavano l’economia.

In realtà il lavoro delle riforme e della ricostruzione della certezza del diritto fu lungo e faticoso. Chi evoca il piano Marshall oggi perpetua il mito che non sarebbe necessario, che basterebbe un fiume di quattrini a fare la differenza. L’esperienza del Pnrr di questi anni dovrebbe bastare a farci perdere il gusto delle leggende economiche.

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