Il miraggio liberale e la destra che c'è

«I liberali non hanno mai fatto corpo nella Repubblica, mai furono nucleo di classe dirigente, sempre hanno agito da singoli e da insofferenti». Così scrisse Giuliano Ferrara sul Foglio dopo la morte di Piero Melograni, storico ed ex comunista, uno dei professori che nel 1994 stavano con Silvio Berlusconi. Insieme a lui, c’erano anche Marcello […]

29 Febbraio 2016

pagina99

Argomenti / Teoria e scienze sociali

«I liberali non hanno mai fatto corpo nella Repubblica, mai furono nucleo di classe dirigente, sempre hanno agito da singoli e da insofferenti». Così scrisse Giuliano Ferrara sul Foglio dopo la morte di Piero Melograni, storico ed ex comunista, uno dei professori che nel 1994 stavano con Silvio Berlusconi. Insieme a lui, c’erano anche Marcello Pera e Lucio Colletti. Stirpe liberale, creatura strana e rara nel panorama politico italiano. Quel centrodestra non c’è più ed è in crisi, in Parlamento ma anche in vista delle imminenti amministrative. Uno schieramento al bivio fra il populismo securitario leghista di Matteo Salvini, quello della chiusura delle frontiere e della caccia al migrante, e il liberalismo parecchio azzoppato dopo vent’anni di fallimenti berlusconiani. Insomma, che centrodestra che farà? Chi vincerà la battaglia delle idee? Per capirlo bisogna affrontare la questione principale, il fattore B. e il fardello che rappresenta nel dibattito attuale.

«Berlusconi», dice a pagina99 il senatore Riccardo Mazzoni, di Ala, ex berlusconiano, fallaciano, giornalista ed ex vicedirettore de Il Giornale, «è come Totti. Spalletti dice “io lo venero, ma ho bisogno di vincere”. Berlusconi non è più in grado, ma finché c’è lui, le primarie non ci sono. E se anche ci fossero, le vincerebbe Salvini, un leader che a suo modo fa concorrenza a Grillo. Il popolo di centro, schifato, che non va a votare, probabilmente tappandosi il naso tra Renzi e Salvini voterebbe Renzi… In Francia la lotta era tra due partiti di centro, tra Chirac e Pompidou, e il Front National era tenuto fuori da tutte le competizioni. Qui invece il centrodestra è di fatto guidato da un leader che sta scavalcando a destra la Le Pen. Berlusconi aveva una straordinaria opportunità di uscire, se avesse proseguito il patto del Nazareno con Renzi. Alfano sarebbe stato politicamente morto. Ma ha perso la sua scommessa e si è accucciato dietro Salvini, facendo prevalere l’invidia per Renzi, che adesso diventerà invidia per Salvini».

Mazzoni dipinge un centrodestra nel caos più totale conia precisione del cronista navigato: «Cè questa alleanza con Salvini, che guida il partito più vecchio d’Italia e la Meloni, che guida un partito nuovo che però porta nel centrodestra i vecchi rancori del Fronte della Gioventù e dell’Msi. E il progetto politico qual è, l’antirenzismo? Mi pare la resa di una destra moderata: Brunetta che va tra i banchi di Sel a inneggiare al loro capogruppo, Quagliariello che abbraccia Alberto Airola del M5S, il quale si scansa. Si cavalcano in modo schizofrenico le unioni civili e Forza Italia si schiera con la parte più oscurantista della Chiesa. David Cameron, un conservatore, ha fatto approvare i matrimoni gay, la regina riceve Elton John con compagno e bambino e lo fa baronetto. Una destra liberale dovrebbe interpretare ciò che si muove nella società e governarlo. Invece il centrodestra si schiera contro la riforma costituzionale che è quasi la fotocopia di quella che facemmo noi, è al traino – come ha detto Ferrara una volta – di un brillante attaccamanifesti». Oggi dunque che cos’è rimasto in Forza Italia? «Da una parte l’isteria di Brunetta, dall’altra Gasparri che dice che se non ci fossi io saremmo al 5%, che grida contro Mare Nostrum ed è diventato la brutta copia di Salvini, solo che la gente a quel punto preferisce l’originale, più giovane e fresco».

Forza Italia è diventata ciò che non è mai stata: era irriverente, ora è solo irrilevante. Questo non significa, osservava su La Stampa lo scorso 3 febbraio lo storico Giovanni Orsina, autore dell’omonimo libro sul Berlusconismo nella storia d’Italia (Marsilio), che non ci sia domanda di destra nel Paese. C’è, ma a quella domanda «non corrisponde un’offerta solida e credibile». Il punto, dice la politologa Sofia Ventura a pagina99, è che «la domanda non produce necessariamente l’offerta. Ci vuole un imprenditore politico che la produca». Serve insomma un Renzi di Forza Italia per non lasciare il centrodestra in mano al populismo salviniano? Pera sostiene (vedi intervista accanto) che il Renzi di centrodestra ci sia già: è Renzi stesso. Il problema è da dove ripartire. E senza capire le ragioni storiche e politiche dell’implosione forzista non si capisce la natura del fallimento e senza di esse non c’è soluzione per il futuro politico del centrodestra. «Il fulcro», prosegue Ventura, autrice de Il racconto del capo. Berlusconi e Sarkozy (Laterza), «era rappresentato da Forza Italia, dove per modalità organizzativa interna l’ascesa era consentita solo a quelli che ossequiavano il leader e non lo disturbavano, che non ponevano questioni. Non c’è stata possibilità di crescita di personalità con una propria autonomia; si è perpetuato fino all’inverosimile il modello di partito carismatico dove il leader non viene mai discusso. Neanche la stessa Forza Italia è mai stata discussa. Ne è nato dunque un ceto politico di piccoli opportunisti, o stile yesmen o alla Fitto, che portava in dote un radicamento personale. An aveva un ceto politico più preparato sul piano tecnico, ma non una grande levatura e si è infranto sul potere berlusconiano, o facendo la vittima come Gianfranco Fini o piegandosi come Maurizio Gasparri». C’era poi un problema strutturale: «L’humus culturale era molto sfavorevole, l’Italia è un paese di Dc e Pci, oggi è di post-democristiani e post-comunisti. Lo scandalo berlusconiano ha voluto rompere in parte con queste due storie e tradizioni, ma senza davvero proporre una cultura politica nuova né incarnare una cultura politica liberale. Era una operazione difficile, che a lui non è riuscita, perché non era un vero liberale. Essere imprenditore non vuol dire essere liberale; per esserlo davvero servono senso dello Stato e sensibilità istituzionale».

Il rischio è che il ruolo del liberale prima versione tocchi farlo a Renzi, anche se il premier non lo è; né per indole personale, psicologica, antropologica, né per storia politica. I pochi liberali stanno altrove. Animano dibattiti in convegni, pensatoi, organizzano sparute opposizioni intellettuali. Uno dei think tank più interessanti è quello dell’Istituto Bruno Leoni, di cui Alberto Mingardi è il direttore. Ha appena pubblicato sulla rivista Nuova storia contemporanea un saggio sul neoliberismo, diventato, secondo Mingardi, il feticcio contro cui la sinistra si scaglia. Eppure, scrive Mingardi, «la notizia del trionfo del neo-liberismo è abbondantemente esagerata».

«Il segreto del successo della Lega di Bossi e Forza Italia di Berlusconi», dice il direttore a pagina99 «è che hanno offerto una rappresentanza politica piena, senza vergognarsi, ai ceti produttivi del Nord Italia, che per quarant’anni avevano votato Dc turandosi davvero il naso. Berlusconi entra in politica dicendo che bisogna tagliare le tasse, in quarant’anni non lo aveva detto nessuno. Non rientrava nel galateo della politica contemplare la riduzione del raggio d’azione dello Stato. Sia la Lega che Forza Italia però hanno drammaticamente fallito nei confronti di quei ceti produttivi e industriali che erano andati a votarli. Il federalismo è stato sostanzialmente un’eterna promessa che i leghisti non hanno mai realizzato e per quanto riguarda Berlusconi possiamo dire che ha fatto, dal punto di vista della spesa pubblica, tutto fuorché un programma di riduzione della spesa e quindi delle imposte». Insomma, un disastro. «Quando quelle proposte sono state avanzate mancava il materiale umano per realizzarle». Basta pensare, dice Mingardi, alla Flat Tax che Berlusconi proponeva nel 1994 – e che oggi torna tra qualche nostalgico, in Rete – «ma non aveva persone e professionalità per trasformarla da idea in norma». Ciò che paga oggi il centrodestra è, di nuovo, «l’assenza di persone. E questo è dovuto in parte a Berlusconi, che è una specie di tappo e impedisce la formazione di cose alternative in quell’area. Poi però c’è anche la tendenza della società civile liberale ad affidarsi a persone che dovrebbero risolvere problemi – Berlusconi, ma anche Renzi – piuttosto che tentare di esprimere essi stessi una rappresentanza politica. E questo pesa. Dopotutto la politica è fatta di persone che fanno le cose. Non dico che non ci siano persone di sentimenti genuinamente liberali ma non sono persone che hanno una posizione preminente». Mingardi stavolta è “d’accordo a metà” con Orsina sulla domanda di destra che c’è nel Paese. «Credo che, al posto di soluzioni liberali, ci sia piuttosto una domanda più rilevante di sicurezza. C’è un forte pezzo dell’elettorato spaesato che ha bisogno di puntiformi, che non capisce come si comportino i governi davanti all’immigrazione, che ha paura del terrorismo, che è preoccupato rispetto a certe evoluzioni della società e quindi vuole risposte più di destra che di taglio liberale. La domanda è: quali sono gli spazi di libertà in un mondo nel quale gli ideali di sicurezza sono sempre più sentiti? È una di quelle questioni nelle quali è l’offerta che fa la domanda. Servirebbero una classe dirigente e una leadership capaci di costruire delle risposte in quel senso». Il problema sta tutto nei numeri. I liberali sono pochi in termini di movimento organizzato. E nessun capo politico emergerà finché «non ci saranno solo economisti liberali o politologi liberali, ma anche un romanziere liberale, un idraulico liberale e quindi anche un leader liberale. E per ora i liberali sono quattro gatti, sovente impegnati a litigare con gli altri per dire che ‘nessuno è veramente liberale quanto sono io’». Mingardi però intravede qualche speranza. «C’è un segnale che ha del provvidenziale e che è inaspettato e incomprensibile rispetto alla situazione di un centrodestra sgangherato come questo: la candidatura di Stefano Parisi a Milano, una carriera notevole, anche nell’associazionismo d’impresa e dotato dì sentimenti liberali strutturati, fa ben sperare. Forse da un caos totale come questo può anche venire qualcosa di molto buono». Aspettando Godot.

Da pagina99, 27 febbraio 2016

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