La nazione resta immobile nella nicchia del suo passato, la scintilla del progresso non l’ha toccata; coltiva come già coltivava; esercita i suoi antichi mestieri, non sente il bisogno di grandi imprese e non trova la via di eseguirle; lo spirito di associazione non la vivifica; appena sensibile ancora alla nozione del bello, non è punto invogliata dal buono e dall’utile; una generazione svagata e inetta succede a quella che era serva e indolente. Il mondo d’intorno procede a passi concitati; le invenzioni, i metodi nuovi, i bisogni della vita sociale sorgono ogni giorno a rigenerare tutti i rami d’industria, ma l’Italia vede e ammira come più non si può, non fa, non invidia.
L’Italia non prova manco il bisogno della emancipazione economica. La persona del suo governo le è sempre ai fianchi per regolarne le azioni, per guidarne le imprese, per dispensarne le idee, per concedere il credito. L’Italia accetta la tutela e si tace». Sono parole dure, quelle di Francesco Ferrara, le quali, pur risalendo al 1866, descrivono alcuni tratti caratteristici del nostro Paese. Con una breve parentesi felice, come documenta Nicola Rossi in Un miracolo non fa il santo. La distruzione creatrice nella società italiana, 1861-2021, edito da IBL Libri.
Non si lasci intimorire il lettore dalle appendici e dai numerosi grafici. II libro scorre piacevolmente e chiarisce qualcosa che molti negherebbero. E cioè che senza una certa cultura favorevole all’innovazione, alla sperimentazione, al piacere di fare da sé, non ci può essere progresso e sviluppo economico. Esattamente ciò che l’Italia dimostra di aver abbracciato solamente durante un breve periodo, quello post Seconda guerra mondiale, e portato avanti anche grazie a due figure chiave, forse i soli, veri statisti che il Paese abbia mai avuto, almeno durante la Repubblica: Alcide De Gasperi e Luigi Einaudi. Già professore di Economia politica all’Università “Tor Vergata” di Roma, Rossi ricorda come entrambi fossero profondamente convinti di un punto: l’Italia non si sarebbe risollevata dalle macerie economiche, culturali e morali se non avesse fatto affidamento sullo spirito d’iniziativa e la capacità di rimboccarsi le maniche. Prerequisiti della creazione di ricchezza che in precedenza non erano stati presenti nel tessuto sociale del Paese. Risulta pertanto discutibile, se non errato, parlare di “miracolo economico”, nella misura in cui le condizioni di benessere che hanno trovato terreno fertile al tempo sono imputabili proprio a un cambio di mentalità cruciale per innestare lo sviluppo.
Nella sua prefazione, l’economista e storica dell’economia americana Deirdre McCloskey semplifica ulteriormente la questione: non ci può essere sviluppo senza libertà di fare. In generale, il mondo moderno ha iniziato davvero a sperimentare un miglioramento delle condizioni materiali quando è mutato l’atteggiamento nei confronti dell’arricchirsi, del far da sé, dell’individualismo: la Rivoluzione industriale, a ben vedere, altro non è che un periodo in cui ciò si verifica. E l’Italia ha sperimentato l’innovismo, ha fatto proprio lo spirito borghese, quello che Sergio Ricossa chiamava l’atteggiamento di «chi vuol far da sé», proprio nel periodo che va dal 1947 indicativamente fino al 1964: un momento di fiducia nella capacità delle persone di creare ricchezza. Ancor più che i molti dati riportati risulta illuminante una notazione che Rossi riporta. Riguarda, nella fattispecie, un confronto tra tre canzoni risalenti a tre periodi molti diversi: 1938, 1958, 1999.
La prima è Mille lire al mese, il cui testo ritrae molto bene l’attitudine tipica dell’italiano medio: quella di accontentarsi di un modesto impiego per vivere in tranquillità. La rappresentazione di una società statica che, per certi aspetti, si ritrova a distanza di mezzo secolo in Una vita da mediano, di Ligabue: l’esaltazione di una vita vissuta seguendo precisi compiti, senza osare. E’ invece il brano di Domenico Modugno, Nel blu dipinto di blu, che fotografa una società diversa: una società che crede nel potere del cambiamento e nella bellezza di una vita dinamica. L’Italia, scrive Rossi, è sempre stata un’economia “gregaria”: un’economia, cioè, che più che fare affidamento sulla propria capacità di innovare dal basso e con le proprie forze, conta di seguire il leader economico del momento. Un’Italia ostile al cambiamento, avversa al rischio e rinunciataria. Un Paese, ancora, che invece di incentivare gli italiani a fare da sé, ha sempre preferito proteggerli e tutelarli dalla pericolosità di esperire un poco di libertà. Ciò, va detto, a livello istituzionale, ma pure sul piano individuale.
Dopo tutto, se le istituzioni sono cruciali per creare quantomeno una cornice giuridico-politica favorevole all’economia di mercato, esse però non possono nulla da sole: in definitiva, sono le persone a dover scegliere, come scriveva Alexis de Tocqueville, tra spirito di libertà e indipendenza, ovvero tra servilismo e dipendenza dal potere.