Il maxi trattato conviene?

Carlo Stagnaro, IBL: «I governi si organizzino per gestire il passaggio dal vecchio al nuovo modello di scambio».

19 Dicembre 2014

L'Espresso

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Le truppe si schierano per la campagna 2015. Generali, battaglioni organizzati ma tra loro molto diversi, commandos e cecchini. Da una parte c’è chi dice no a un accordo commerciale tra Europa e Stati Uniti (“Transatlantic trade and investment partnership”, o Ttip) che favorirebbe i secondi e soprattutto le multinazionali di entrambe le coste, avrebbe da noi costi enormi sul fronte di lavoro, salute e ambiente. Sono i sindacati europei, i nuovi no global con siti agguerriti, poi la sinistra radicale e decine di organizzazioni di consumatori che hanno raccolto oltre un milione di firme in tutta Europa per bloccare il mega negoziato e che venerdì 19 dicembre scendono in piazza per una manifestazione in coincidenza con la riunione del Consiglio europeo a Bruxelles.
Sullo stesso fronte, ma agitando armi diverse come populismo e nazionalismo, stanno Marine Le Pene l’estrema destra europea, la Lega di Matteo Salvini e il movimento dí Seppe Grillo. Ma anche a livello di politici europei non esiste unità totale. La Francia, con la sua tradizionale anima antiamericana, non vede di buon occhio le conseguenze del trattato di libero scambio. La Germania di Angela Merkel, tra l’altro colpita dal Datagate, l’anno scorso molto convinta, mostra segni di preoccupazione e gli economisti si arrovellano per capire se la sua industria ne trarrà reale beneficio. Più ottimisti inglesi, spagnoli e polacchi, questi ultimi veri entusiasti del libero mercato.
Determinatissimi i grandi manager dí entrambe le sponde dell’Atlantico e, in genere, gli americani. I primi puntano a esportare di più a costi inferiori. I secondi ricercano uno schieramento occidentale da contrapporre a Russia e Cina.
Oggi che il commercio è un’arma tanto letale quanto bombardieri e bazooka, un bacino di libero scambio come l’Europa integrata costituirebbe una munizione geopolitica fondamentale, liberando gli Stati Uniti da eventuali ricatti da Oriente. Senza contare che il Ttip riguarderebbe circa la metà del Pil mondiale e influenzerebbe l’intero commercio mondiale.

E l’Italia? Nel semestre di presidenza in via di conclusione ha provato a portare a casa qualche risultato, ma si è dovuta scontrare con le elezioni di mid-term in America e il cambio di Commissione a Bruxelles. Comunque il premier Matteo Renzi sostiene che un accordo Ttip è «una priorità assoluta». Suo portabandiera è il viceministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, 41 anni, senatore di Scelta civica, ex manager di Ferrari, Sky e Confindustria,secondocui «bisogna fare in fretta, cercare di chiudere entro i primi mesi del 2016 perché le presidenziali Usa e soprattutto la trattativa di Washington per un accordo commerciale transpacifico con alcuni Paesi asiatici potrebbero tagliarci fuori». In mezzo al campo di battaglia 800 milioni di cittadini e consumatori ignari. Sentono parlare di Ttip, ricordano il Gatt e il Wto, sigle da farsi venire l’orticaria, e si chiedono: ma a noi cosa cambia? Cerchiamo intanto di capire a che punto siamo. La trattativa va avanti da diversi mesi e solo da poco il parlamento europeo ha ottenuto la rimozione del segreto dai documenti dei negoziatori. Un passo decisivo sotto il profilo democratico e anche della comunicazione. Assurdo pensare che le burocrazie di Washington, dove il capo negoziatore è il rappresentante per il Commercio, Michael Froman, e di Bruxelles, dove il testimone è appena passato al neo commissario per il Commercio, Cecilia Malmstrom, potessero chiudere in gran segreto un accordo che riguarda alcune centinaia di milioni di persone. L’eventuale trattato dovrà poi essere approvato dal Parlamento europeo e ratificato da quelli nazionali. Ma che arrivi fino in fondo è ancora tutto da vedere.

Meno dazi per tutti
Nei sette round finora tenuti (il prossimo è atteso tra fine gennaio e inizio febbraio) si sono escluse come da mandato vincolante alcune materie tipo cultura e audiovisivi, l’accesso indiscriminato agli Ogm (organismi geneticamente modificati), i servizi pubblici. Si è cominciato a discutere di abolizione dei dazi, puntando su un accordo trasversale che riguardi tutti i settori, anche se la palla è in mano agli americani dopo l’offerta formulata dagli europei i dazi sono oggi diffusi e in qualche caso elevati, ma ancor più ardue da superare sono le barriere non tariffarie, regolamenti e requisiti tecnici: secondo le stime costituirebbero mediamente il 41 per cento dei costi addizionali con picchi nell’aerospazio, i macchinari, la biochimica e l’alimentare.
In sei settori, a detta di Calenda, le trattative sono abbastanza avanzate: auto, chimica, farmaceutica, dispositivi medicali, tessile e cosmetici. Si tratta di settori dove l’esigenza è armonizzare gli standard di produzione e consentire la distribuzione dello stesso prodotto su entrambi i mercati. Prendiamo le automobili, il settore che secondo un rapporto del think tank londinese Cepr sarebbe quello che avrebbe più da guadagnare, con future esportazioni che per l’Europa crescerebbero anche del 40 per cento. Oggi negli Usa e in Europa esistono regole diverse per esempio su sicurezza, collaudi e crash test, visto che in alcuni Stati americani non sono obbligatorie le cinture di sicurezza e quindi gli airbag sono più grossi, così come più robusti sono i rivestimenti interni. I costruttori devono produrre spesso due modelli diversi per i mercati in questione. Ci sono motorizzazioni differenti, valutazioni diverse sugli standard di emissioni inquinanti, in America è più usato il cambio automatico. E sensibilmente diverse sono le barriere tariffarie: l’auto europea paga un dazio del 10 per cento quando arriva oltre Oceano, quella americana è soggetta solo al 2,5 per cento.

La sfida dell’Italian Food
Il monumento al quale tutte le imprese alimentari guardano è il negozio Eataly di New York. Se riuscissero ad arrivare in tutta l’America come sulla Quinta Strada verserebbero fiumi di prosecco. Difficile, ma non impossibile. Questo negoziato, che a noi interessa più di ogni altro, è complicato da barriere di tutti i tipi e ci vorrà un piccone pesantissimo per abbatterle. Tra Italia e Stati Uniti, ricorda Paolo De Castro già ministro e oggi coordinatore della Commissione agricoltura del parlamento europeo, c’è un saldo commerciale attivo per 2,5 miliardi sui beni alimentarie un saldo negativo di 450 milioni per quello agricolo. «C’è un potenziale enorme perché agli americani piacciono i nostri prodotti e la loro economia sta andando bene, però….». Però? Ci sono barriere le più disparate: da quelle tariffarie, sanitarie e fitosanitarie a quelle tecniche tipo richieste di standard, certificazioni, packaging, etichettatura. C’è in sostanza una cultura diversa del cibo e un’attenzione diversa per gli effetti sulla salute. Molti sono i divieti all’importazione: niente formaggi fatti con latte crudo; in alcuni Stati è obbligatorio arricchire la pasta con vitamine; ci sono limiti nella vendita di carne e prodotti derivati; l’olio d’oliva deve essere privo di residui del pesticida clorpirifos etile, consentito in Europa. L’ortofrutta è ammessa solo se è presente un importatore munito di una licenza speciale rilasciata dal dipartimento agricolo locale e nelle grappe la quantità massima di alcool metilico autorizzato è inferiore che da noi. Poi esiste un problema più generale. Negli Stati Uniti i controlli sull’alimentare sono effettuati soltanto a valle e la prova della nocività è a carico del consumatore, non del produttore. In pratica non ci sono verifiche intermedie su come è prodotto il cibo che arriva nel piatto e se non danneggia immediatamente l’organismo allora è considerato vendibile. In caso di problemi, sarà a carico del consumatore dimostrare passati 20 anni che quell’alimento o quel materiale è dannoso. Nel frattempo il produttore può venderlo indisturbato, come è successo con la carne agli ormoni. In Europa invece vige il principio di precauzione: se esiste il sospetto che un alimento possa essere dannoso, allora è a carico del produttore rimuoverlo immediatamente.
C’è inoltre il nodo delle indicazioni geografiche, come il Grana Padano o il Parmigiano reggiano, prodotti unici, sulle quali gli europei e gli italiani in particolare insistono mentre gli americani non capiscono. Un puzzle gastronomico complicato da comporre e far digerire. Un ultimo caveat per il nostro agrobusiness: se l’industria alimentare italiana potrebbe risultare vincente dalla liberalizzazione dei mercati, secondo tutti i rapporti, a soffrire sarà certamente quella agricola di base, già ad oggi troppo debole per competere a livello internazionale e bisognosa di riconversione.

La lezione del tessile
Il vero punto interrogativo è proprio chi guadagnerà davvero da questa maxi zona di libero scambio: la guerra dei numeri è già iniziata. «Semplice: a vincere saranno i settori in cui le due aree sono più bravi, a soffrire quelli in cui i rispettivi produtto? ri sono già adesso più deboli», riassume Carlo Stagnaro, economista del think tank Bruno Leoni e consigliere del ministero per lo Sviluppo economico: «L’importante è che i governi si organizzino per gestire il passaggio dal vecchio al nuovo modello di scambio e aiutare chi lavora in settori che non sopravviveranno».
Secondo il rapporto a cui fa riferimento l’Ue, quello del Cepr, l’accordo metterebbe nelle tasche degli europei 500 euro l’anno in più e aumenterebbe le dimensioni dell’economia del vecchio Continente di 120 miliardi di euro e quella americana di 95 miliardi. A stare invece all’analisi condotta dalla Tufts University del Massachusetts, i guadagni derivanti dalle esportazioni non sarebbero evidenti: le economie scandinave e i paesi del Nord europa perderebbero sia in termini di Pil che di esportazioni nette a favore degli Usa. E perfino il reddito da lavoro dei cittadini ne soffrirebbe: i francesi avrebbero 5.500 euro l’anno in meno, í paesi scandinavi 4.200 e anche i lavoratori tedeschi si ritroverebbero con un reddito più leggero di 3.400 euro. Tra i più fortunati, nonostante tutto, gli italiani, che nella peggior delle ipotesi perderebbero “solo” 600 euro l’anno non andandosi a scontrare frontalmente in settori in cui gli Usa sono molto competitivi. Complessivamente però la perdita di posti di lavoro in Europa sarebbe stimabile tra le 450 mila unità (Cepr) e le 600 mila (università di Tufts). Si tratta di uno scenario poco piacevole per un’Europa già messa in ginocchio da un tasso di disoccupazione crescente, che nessuna politica nazionale ha saputo neutralizzare. «Un esempio di quel che potrebbe accadere lo abbiamo visto nel 2005 con lo scadere dell’accordo che limitava l’importazione di prodotti tessili in Europa», spiega Monica di Sisto, responsabile italiana di Stop Ttip: i benefici ottenuti dall’alta moda non hanno compensato il crollo del tessile causato dai manufatti a basso costo provenienti dalla Cina. In un’economia debole la domanda nazionale per prodotti a basso valore aggiunto potrebbe mettere in ombra quella per prodotti ad alto valore aggiunto di cui, nel caso della moda, Italia e Francia sono leader. E il saldo netto tra import e export, alla fine, potrebbe essere negativo.

Sindacati addio?
Ancora più dell’industria, il punto su cui si concentrano le critiche al Trattato sono i servizi e gli appalti pubblici, temi delicati perché coinvolgono direttamente i soggetti pubblici.
Per quanto riguarda i servizi, sarebbero teoricamente esclusi dal mandato negoziale ma, secondo i documenti ottenuti da sindacati e associazioni non governative, sarebbero lo stesso finiti nelle trattative, inclusi quelli essenziali per l’interesse pubblico come il trattamento dei rifiuti e l’acqua. Da definire ci sarebbero poi i servizi finanziari. In questo caso è l’Europa che ha le regole meno stringenti e i cui governi stanno facendo pressione su Washington per un ritorno alla deregolamentazione pre2008, anno della crisi finanziaria che ha travolto le due coste dell’Atlantico. Sul tema degli appalti, invece, a preoccupare è l’asimmetria che si starebbe delineando nei negoziati. Gli Usa consentirebbero l’apertura del mercato alle aziende europee solo a livello federale, escludendo quello statale, dove si concentrano gli investimenti in infrastrutture. Gli europei invece permetterebbero alle aziende americane di aggiudicarsi appalti pubblici perfino nei Comuni.
Infine, c’è il lavoro. Gli Stati Uniti non aderiscono a cinque delle otto convenzioni promulgate dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) perché in conflitto con la loro legislazione che tutela meno fattori come i diritti sindacali, gli scioperi, il lavoro dei minorenni e il diritto a una remunerazione uguale a parità di lavoro. Si tratta di elementi fondamentali della legislazione europea su cui rischierebbero di scontrarsi le aziende Usa che si trovassero ad operare in Europa e che dunque vorrebbero che il trattato modificasse.
Tra tanti dettagli si annida un rischio ulteriore: quello di un latente sgretolamento della struttura del mercato unico europeo, sul cui altare negli ultimi decenni tanto è stato sacrificato. Perché se aumenterà l’interdipendenza commerciale dei singoli Stati europei con gli Usa, sarà inevitabile una diminuizione di quella interna all’Unione. E in un’epoca in cui il commercio è anche identità politica e strategia militare, varrebbe forse la pena farci attenzione.

Da L’Espresso, 19 dicembre 2014

oggi, 26 Luglio 2024, il debito pubblico italiano ammonta a il debito pubblico oggi
0
    0
    Il tuo carrello
    Il tuo carrello è vuotoTorna al negozio
    Istituto Bruno Leoni