Questa volta è stata la cronaca nera ad accendere nuovamente i riflettori su un sistema di finanziamento del cinema e dell’audiovisivo che mostra da tempo gravi falle. Possibili frodi, fondi pubblici utilizzati in modo dissennato e controlli assenti o inefficaci: è questo il quadro che emerge. Come è stato evidenziato, la società che ha prodotto (o avrebbe dovuto produrre, perché non si sa se il film esista davvero…) l’opera di Rexal Ford, alias Francis Kaufmann, ha beneficiato di 4,2 milioni di aiuti in due anni: per un totale di 12 film, dei quali solo uno è stato girato.
Centinaia sono i film che hanno richiesto il credito d’imposta e che non hanno mai raggiunto le sale. Il meccanismo principale su cui si regge l’intero sistema è infatti quello del tax credit, una forma di incentivo che consente ai produttori di recuperare una parte consistente dei costi sostenuti. Uno “stimolo” di natura fiscale che ha favorito la realizzazione di opere in un numero spropositato: il sistema si è trasformato in una macchina senza freni e alla quantità raramente sono corrisposti qualità e incassi.
Per arginare questa deriva, con due regolamenti il governo è intervenuto nel 2024 e poi di recente. A seguito del “caso Kaufmann”, in questi giorni il ministro della Cultura ha annunciato nuove regole per il tax credit “internazionale”, la firma di un protocollo con la guardia di finanza e lo stanziamento di risorse per aumentare il sistema di monitoraggio e investigare su casi pregressi sospetti.
Tutto ciò segnala che, contrariamente all’opinione di molti, la spending review – minuta, se si vuole, puntuale, a livello del singolo capitolo di spesa – è non solo possibile ma anche necessaria. Nel caso di specie, poi, dovrebbe essere l’indispensabile premessa a una seria riflessione su che cos’è l’industria cinematografica e qual è il ruolo che deve ricoprire lo Stato in questo settore economico. Perché il cinema – e più in generale l’audiovisivo – è al tempo stesso industria e prodotto culturale, e richiede strumenti di governance dedicati.
Sia in ambito politico che tra esponenti di primo piano del mondo del cinema si è arrivati a parlare della necessità di creare un ente autonomo, una sorta di autorità tecnica per il cinema e l’audiovisivo: un’agenzia capace di gestire in modo efficace risorse, controlli e strategie, con competenze adeguate, slegata dall’apparato ministeriale e sperabilmente non sottoposta a influenze politiche.
Ma c’è un altro punto, forse ancora più urgente: la necessità di riformare l’intero impianto dei contributi pubblici. In questi anni, se da una parte gli incentivi hanno portato a una vera e propria iper-produzione, alterando i “sani” meccanismi di mercato, dall’altra si è assistito a un’esplosione dei costi: sia per lo Stato che per la realizzazione stessa delle singole opere. Su scala inferiore, la dinamica può essere assimilabile a quella del celebre superbonus edilizio per l’efficientamento energetico.
La vera “cinema revolution” non è allora quella di mettere i biglietti a 3,50 euro per portare il pubblico in sala, ma quella di ristabilire un equilibrio tra intervento pubblico e logiche di mercato. In caso contrario, continueremo a produrre film che nessuno vede, con soldi che nessuno controlla, in un sistema che si autoalimenta fino al prossimo scandalo.