Il gioco parlamentare delle norme ha tolto la voce ai consumatori

In un momento nel quale il 12% degli italiani un lavoro non ce l'ha, stupisce un poco se d'improvviso il problema diventano gli straordinari

3 Aprile 2017

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Il dibattito pubblico dovrebbe esigere un minimo di coerenza. Non possiamo passare la vita a lamentarci che l’Italia non cresce, e poi condannare l’outlet di Serravalle che vuole aprire la domenica di Pasqua.

C’è una ragione se la completa liberalizzazione degli orari d’apertura degli esercizi commerciali stava in un decreto che si chiamava “Salva Italia”. Esperti “di destra” e “di sinistra” si accapigliano su come si faccia a tornare a crescere. Ma che cosa sia “la crescita” è abbastanza chiaro: un aumento delle transazioni, degli scambi, delle cose che vengono comprate e vendute.

Affinché queste cose vengano vendute e comprate, debbono anzitutto potersi vendere: gli acquirenti devono essere a conoscenza dell’esistenza di certi beni, perché possano eventualmente andarseli a prendere.

Consentire ai negozi di stare aperti quando e quanto credono significa affidarsi alle intuizioni di chi li gestisce. È ragionevole aspettarsi che costoro cerchino di esporre la loro merce proprio dove il loro consumatore la vedrà meglio: fuor di metafora, ragioneranno su quelli che sono i giorni in cui più persone pensano di far spesa.

In Italia la libertà di apertura è stata combattuta da una strana coalizione composta dai piccoli dettaglianti, dal sindacato, dai vescovi. Grazie a forti pressioni, il Parlamento sta discutendo su come sostituire quella norma con un’altra, che obbligherà a un certo numero di chiusure regolamentari, ma con flessibilità. Anche il legislatore “revisionista”, insomma, ha ritenuto necessario lasciare liberi gli esercizi di adattare il proprio calendario alle esigenze della clientela.

Nel gioco parlamentare, come sempre, senza voce sono rimasti i consumatori: le mamme che lavorano che vorrebbero fare la spesa la sera, le famiglie che vanno al centro commerciale la domenica. Per queste persone il sindacato non parla. Si capisce bene che la Chiesa preferirebbe passassero il settimo giorno a meditare sulla Parola: magari bisognerebbe prendere atto che per alcune famiglie, dopo essere stati alla messa, è piacevole fare compere assieme in quelli che sono a tutti gli effetti luoghi di socializzazione, dove i figli incontrano i loro amici e i genitori pure.

A differenza dei produttori, i consumatori raramente esprimono una posizione coesa e forte nel dibattito pubblico. Proprio per questo rischiamo di restare indifferenti quando ai produttori viene sottratto un pezzo di “libertà economica” il cui esercizio creerebbe opportunità anche per noi. Nell’Italia che pur di evitare il referendum abolisce i voucher, il sindacato sembra aver riaffermato con forza la propria egemonia. Non dimentichiamo quanto quell’egemonia ci è già costata in vincoli che hanno ulteriormente depresso la nostra crescita.

Beninteso, il trattamento dei lavoratori, nei giorni di apertura festiva, dipende da quanto stabiliscono i loro contratti. Il sindacato potrebbe cercare di rendere più “costoso” il lavoro festivo, se ritiene sia nell’interesse dei suoi aderenti. Questo però non può significare il rifiuto delle aperture per partito preso. In un momento nel quale il 12% degli italiani un lavoro non ce l’ha, stupisce un poco se d’improvviso il problema diventano gli straordinari.

Da La Stampa, 2 aprile 2017

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