Il gioco delle tre carte del nuovo Pnrr

La revisione del Piano non si limita a spostare le risorse


13 Marzo 2024

La Stampa

Serena Sileoni

Argomenti / Economia e Mercato

Nei giorni scorsi, si è concluso il procedimento di revisione del PNRR negoziata tra il ministro Fitto e il presidente Meloni e la Commissione, con la pubblicazione del decreto-legge che recepisce quanto accordato in sede europea. La revisione è stata una questione rilevante fin dall’insediamento dell’attuale governo: perse, dato il valore non solo economico del Piano, ma anche per la necessità del primo partito di maggioranza di fare proprio un piano approvato con la sua astensione, dai banchi dell’opposizione. Non è quindi una notizia secondaria il completamento della procedura, con l’individuazione dei suoi effetti finanziari. Eppure, l’impressione è che il provvedimento non sia stato commentato come merita.

Una spiegazione semplice ma sempre valida è che il testo, soprattutto per quanto riguarda le disposizioni più importanti di composizione degli effetti, è pressoché incomprensibile. Nel solo art. 1, che è dedicato proprio a questo, si contano quasi 5000 parole consistenti in buona parte in rinvii inintelligibili ad altre disposizioni legislative. La sola prima copertura di alcuni dei maggiori oneri è prevista in 23 voci di riduzioni di spesa del primo decreto PNRR, tutte individuate per rinvio. Ad essa, segue un elenco fino alla lettera u) per le altre necessità finanziarie, trovate sempre con la tecnica del rinvio. Testi normativi come questo, al pari delle leggi di bilancio, scontano una oggettiva difficoltà di interpretazione, ma è evidente che un provvedimento inintelligibile purtroppo non fa più notizia. Ed è un peccato, perché se, come ricorda un sornione Dostoevskij mentre parla del freddo invernale a cui sono avvezzi i russi, l’abitudine è il principale motore persino dei rapporti statali e politici, l’assuefazione all’oscurità delle leggi reca con sé l’incapacità di un controllo critico della pubblica opinione, che è il sale della democrazia. Ed è proprio in questa ottica che il decreto PNRR quater merita attenzione.

Il dato principale è che la revisione del Piano non si limita a spostare le risorse: i costi aumentano di 22,74 miliardi e si riducono di 10,42, per una differenza di più di 12 miliardi di cui trovare copertura. Togliendo i circa 3 miliardi di nuove risorse assegnate dall’Europa per il RepowerEU, l’onere complessivo è dunque di poco più di 9 miliardi, che vengono presi da altri fondi, come il Piano nazionale complementare e il Fondo di sviluppo e coesione (il definanziamento del Piano complementare viene invece degradato a una barocca procedura sub-legislativa che meriterebbe da sé sola di essere ben analizzata).

Da questo primo dato sistematico, si possono ricavare due considerazioni generali. La prima riguarda l’inscalfibile lezione che dalla spesa pubblica è quasi impossibile tornare indietro, di qualsiasi colore siano i governi e a dispetto di ciò che si dica o si voglia rappresentare al proprio elettorato. Una lezione che purtroppo continueremo ad apprendere in un clima di generale stordimento, se è vero che, ad esempio, non ci siamo ancora ben resi conto di cosa abbia voluto dire la spesa generata da superbonus e bonus facciate, di poco inferiore per ora a quella dell’intero PNRR.

Venendo alla seconda considerazione, l’attuale governo, come non ha mai smesso di nascondere Giorgia Meloni, si è trovato un piano scritto da altri. Chiederne una revisione serviva quindi anche a farlo proprio e a rendere coerente la posizione dell’allora “partito di opposizione”, che si astenne dal votarlo, con quella dell’attuale “partito di governo”. Tuttavia, più di mezzo anno di negoziati e limature ha portato a una modifica di modesto respiro, non molto diversamente da quanto è avvenuto per la revisione della governance del Piano. Le riforme non vengono sostanzialmente toccate. La riailocazione delle risorse sembra più un gioco delle tre carte tra PNRR e altri fondi che non un ripensamento del Piano. Peraltro, cambiamenti in corsa su obiettivi puntuali li avrebbe fatti qualsiasi governo, compreso quello che lo aveva varato, se non altro per tenere conto delle risorse aggiuntive del RepowerEU e degli effetti dell’inflazione. Non a caso, la maggior parte dei paesi europei ha negoziato delle modifiche ai piani nazionali, come è fisiologico che sia in programmi di spesa così vasti, profondi e complessi.

Che quella appena approvata sia una somma di modifiche al margine piuttosto che una revisione sistematica può significare due cose. Può voler dire che al principale partito di governo piace un piano che quando era all’opposizione ha osteggiato, confermando la differenza, che ha ben imparato Giorgia Meloni, tra l’arte della politica e l’arte del governo. Oppure, al contrario, può voler dire che, nonostante la volontà politica dell’attuale governo, il Next Generation EU, ossia il sistema europeo che fa da cornice regolatoria ai piani nazionali di ripresa, è efficiente nel suo obiettivo generale, che è quello di blindare l’esecuzione di investimenti importanti a livello nazionale e di garantire che siano portati a compimento nonostante i cambi di governo.

Se questa fosse la spiegazione, se ne dovrebbe ricavare una domanda ben più profonda rispetto alle contingenze politiche: tra gli Stati e l’Unione europea, dove si va collocando quel quarto potere costituzionale – dopo il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario – che è l’indirizzo politico, cioè la fissazione delle finalità che assume su di sé l’azione politica, di cui finora si è discusso come azione interna ai poteri statali? Una domanda utile a capire non solo cosa sta diventando l’Unione europea, ma – soprattutto – di quale vestito ha bisogno per non fare la parte del re nudo.

da La Stampa, 13 marzo 2024

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