E’ lecito aiutare una persona a morire, in determinate circostanze di intollerabili sofferenze fisiche e psicologiche? La politica da anni nicchia in un gioco di specchi riflessi in cui nessun partito vuole prendersi fino in fondo la responsabilità di varcare le frontiere dell’etica sociale o anche solo di spiegare le possibilità legali e mediche che esistono tra la speranza di vivere e quella di morire. Ma quella domanda ha trovato da qualche anno una chiara risposta, fuori dai balbettii della politica: A fornirla è statala combinazione di scelte coraggiose individuali, a partire da quelle di Marco Cappato, di una chiara giurisprudenza costituzionale e di una meno evidente prassi amministrativa e medica. Esiste una zona franca in cui già oggi una umanità operosa e frammentata si fa carico di quando interrompere cure inutili, di come accompagnare i malati terminali, calibrare le cure palliative, assecondare la loro libera determinazione, con la guida di alcuni punti fermi di principio che la Corte costituzionale ha chiarito in maniera sempre più esplicita e dettagliata.
La legge sul fine vita che il Parlamento si appresta a discutere non riguarda quindi il profilo del dovere di vivere o della libertà di morire per chi da solo non può procurarsi la morte, perché questo è già stato tratteggiato. Riguarda però, per quel che si sa, un altro elemento sostanziale di grande importanza. Posto che non è reato assistere al suicidio chi voglia porre fine alle proprie intollerabili sofferenze nel caso in cui sia mantenuto in vita con trattamenti sostitutivi di funzioni vitali, la domanda su cui il Parlamento ha ancora libertà di scelta è se suicidarsi, in quelle condizioni, sia un diritto. Per essere tale, è infatti necessario che la legge riconosca un dovere a provvedere a carico del sistema sanitario nazionale. Dovere che sembra negato dallo schema di proposta di legge, laddove esclude l’utilizzo di farmaci, strumentazioni e personale del servizio sanitario nazionale per agevolare il proposito di mettere fine alla propria esistenza.
La Corte costituzionale si è limitata a riconoscere il necessario coinvolgimento del servizio sanitario per accertare la sussistenza dei requisiti di liceità della procedura di suicidio assistito, ma ha lasciato alla politica la scelta se fare un passo ulteriore e configurare un vero e proprio diritto del malato ad essere assistito nel suo proposito di morte, in presenza di quei requisiti che rendono non punibile l’aiuto al suicidio.
Nel gioco politico, è chiaro che il testo base è solo un inizio. Su un tema ditale portata, la discussione in aula condurrà a negoziazioni e aggiustamenti rispetto a una proposta che, proprio in vista di queste e quelli, ha una sua rigidità iniziale. Ad esempio, è possibile che la maggioranza di governo sia propensa a sacrificare o modificare la composizione del Comitato nazionale di valutazione. Si tratterebbe di un nuovo organismo chiamato a rilasciare pareri non vincolanti sui singoli casi, nominato dalla Presidenza del Consiglio. In presenza di comitati etici territoriali e di un Comitato nazionale di bioetica operativi di anni, non si vedono ragioni oggettive per l’istituzione di un ulteriore comitato di esperti tutto di scelta della Presidenza del Consiglio, se non quella di controllarne le nomine odi venire a qualche compromesso con i partiti.
Più arduo invece è che la maggioranza si spinga a riconoscere un diritto al suicidio assistito attraverso una presa in carico del servizio sanitario nazionale, andando oltre il mero recepimento di quanto già noto, ovvero che il diritto di vivere non è un obbligo a rimanere in vita.
Sarebbe una scelta dirimente dal punto di vista etico e si comprenderebbero le ragioni di una rigidità politica, ma sarebbe anche una scelta inefficiente e iniqua da un punto di vista pratico.
Sono chiare le conseguenze di principio che avrebbe un impiego delle risorse del servizio sanitario nazionale. E tutta via altrettanto chiaro che escluderlo comporterebbe una in giustizia sostanziale tra chi potrà permettersi di essere aiutato a morire e chi no, chi potrà farlo in condizioni di sicurezza sanitaria e chino. E una storia già vista con le pratiche abortive e di fecondazione assistita, finché i governi non decisero, con scelte politiche e quindi per forza parziali e imperfette, di porre fine a una viltà di Stato.