Dal febbraio 2022, quindi immediatamente dopo l’aggressione all’Ucraina, i beni russi detenuti dalle banche centrali e dagli istituti finanziari nell’Unione sono bloccati. La maggior parte di essi sono riserve della Banca centrale detenute presso banche europee, ma vi sono anche beni privati che sono stati sottratti alla disponibilità dei proprietari, per un valore complessivo di 210 miliardi di euro. Il blocco risponde in origine a una logica sanzionatoria, cioè è stato imposto per diminuire le risorse disponibili alla Russia per finanziare la guerra e per mettere pressione al governo russo, anche tramite il congelamento dei beni privati.
Nel maggio 2024, il Consiglio ha consentito che i profitti di tali beni bloccati siano utilizzati a sostegno dell’Ucraina e in effetti, a partire dal mese di luglio, sono stati destinati a tale scopo. Si è trattato di una decisione coerente con il fatto che blocco dei beni non vuol dire confisca: non sono al momento nella disponibilità dei russi, ma sono ancora di loro proprietà.
Le risorse derivanti da interessi e rendimenti sono però poche rispetto alle necessità di difesa e di bilancio dell’Ucraina, e sono ancora meno di quelle necessarie dopo l’interruzione degli aiuti diretti da parte di Trump. Da qui, da questa esigenza concreta che non riguarda solo l’Ucraina, ma tutto quello che il conflitto rappresenta per l’Europa, l’azzardo della proposta di usare gli stessi asset, e non solo i loro interessi e rendimenti, per aiutare Kyiv. Un primo passaggio per arrivare a questo obiettivo è stato raggiunto una settimana fa, quando il Consiglio ha deliberato il congelamento a tempo indeterminato dei beni, senza più bisogno di un rinnovo periodico. Per farlo, ha utilizzato una procedura d’urgenza che ormai sta diventando, ahinoi, una prassi ordinaria per prendere decisioni difficili o per fare quello che con le sue ordinarie attribuzioni l’Europa non potrebbe fare.
Il Consiglio di una settimana fa ha quindi preparato la strada alla proposta della Commissione di finanziare un prestito con la garanzia degli asset, nella previsione che la Russia, al termine del conflitto, dovrà ripagare i danni all’Ucraina, sostituendo di fatto la garanzia con il legittimo pagamento di quanto dovuto.
Le obiezioni all’uso dei beni immobilizzati sono di due tipi. Un primo tipo riguarda la scelta stessa di essere al fianco dell’Ucraina ed è stato manifestato da Ungheria e Slovacchia. Un secondo tipo è più articolato e, per ragioni diverse, non mette in discussione la solidarietà anche economica al Paese aggredito, ma la legittimità e l’opportunità di usare i beni congelati fin da ora, prima che le sorti del conflitto siano decise e le condizioni per la sua fine siano chiarite. Il Belgio, Paese in cui è custodita la maggior parte degli asset, è preoccupato per i rischi derivanti dall’operazione. La presidente Meloni richiede, insieme a pochi altri Paesi, una base giuridica solida per evitare di fare «un regalo a Mosca».
Non sono cavilli giuridici, o almeno non solo: i beni di cui si discute sono ancora di proprietà, pubblica e privata, della Russia. Usarli pone seri problemi legali e ostacoli procedurali, ma l’Europa ha dimostrato in questi anni che non sono i cavilli a fermarla. Il Next Generation EU è stato un grande esperimento di creatività istituzionale, per usare un eufemismo. La stessa procedura proposta dalla Commissione per l’uso degli asset russi lo è e sembra anche funzionare sulla base di un calcolo del rischio legale. La questione è fino a che punto si possa essere creativi o si possa derogare ai principi che, prima che al diritto europeo, appartengono alla cultura giuridica di cui l’Europa si vanta.
Anticipare una misura che può essere adottata solo quando si potrà parlare di riparazioni di guerra non è infatti solo un rischio legale, ma un problema di coerenza col modo in cui l’Europa ha insegnato al mondo a regolare in maniera affidabile i rapporti giuridici. I leader europei favorevoli all’uso degli asset ne fanno una questione morale. «O soldi oggi o sangue domani», ha detto Donald Tusk. Se si crede davvero che questa sia la posta in gioco, sarebbe preferibile la strada del debito o di un risparmio di spesa su altre voci di bilancio.
In fondo, il valore complessivo dell’operazione è poco di più del solo Pnrr italiano. Ritenere che la pace e il ripristino dell’ordine in Europa non abbiano prezzo e che in questo conflitto siamo rimasti da soli a custodire alcuni valori non negoziabili, come la pace e la libertà, è un buon motivo, se genuino, per pagare questo prezzo con risorse proprie piuttosto che con quelle altrui, anche fossero del nemico. Non è un riconoscimento delle ragioni della Russia, ma una assunzione fino in fondo di responsabilità politica di fronte ai cittadini europei. Se esiste una differenza tra debito buono e cattivo, è questo il momento di dimostrarlo, senza gettare il sasso e nascondere la mano.