Il crimine si evita non creando criminali

Liberilibri pubblica due lezioni di Thomas Hodgskin, a cura di Alberto Mingardi, sulla natura della legge e le conseguenze sulla società

12 Gennaio 2015

La Stampa

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Sentite questo incipit: «Signore e signori, una consapevolezza dolorosa, resasi evidente in molti articoli di giornale e in numerosi tentativi di avviare riforme, ha cominciato a pervadere la nostra società: il nostro sistema penale è un fallimento». Se non fosse per la prosa lievemente aulica, potrebbe costituire la sincera ammissione di sconfitta di qualunque ministro della Giustizia. Di solito le riflessioni sulla qualità di un sistema repressivo ruotano attorno alla repressione stessa. Poco si discute del perché i crimini vengono commessi. Il lettore ora non si spaventi: il saggio del quale stiamo parlando non ha niente a che vedere con certa sociologia in voga in anni non troppo lontani. L’incipit di cui sopra è di un giornalista vestito con la tuba, firma dell’Economist quando ancora Karl Marx non era Karl Marx e la Gran Bretagna faceva i conti con l’enorme debito pubblico accumulato durante le guerre napoleoniche.

La soluzione proposta da Thomas Hodgskin è apparentemente stupida: la soluzione per evitare il proliferare dei criminali è non crearli. Si dirà: eureka! Il nostro Hodgskin ha scoperto l’acqua calda. E in effetti, così devono aver pensato i londinesi meticolosamente scelti per partecipare ad una conferenza organizzata dall’eccentrico intellettuale autodidatta. Ma se avrete la pazienza di arrivare fino in fondo alla lettura del primo dei due saggi editi da Liberilibri scoprirete che dietro quella apparente banale affermazione c’è una interessante riflessione sulla natura della legge e le conseguenze sulla società.

Nell’attualità della politica, dei proclami che promettono una-riforma-al-mese, delle soluzione palingenetiche per via legislativa e dei pasticci a mezzo decreto delegato non c’è niente di più utile da indagare che questo. Ebbene, la tesi di Hodgskin riassunta molto bene da Alberto Mingardi nella introduzione è che l’ambizione di «mettere ma no alla lettera delle leggi e riscriverle, sia per forza terreno fertile per la proliferazione di interessi di parte». I mezzi – dice Mingardi rivelano il fine: «l’ambizione di progettare la società, fosse anche per renderla molto migliore dell’attuale, non può che ricorrere ad altre bardature, ad altri vincoli che strangolano il sistema delle libertà naturali». Naturalmente è difficile sostenere che nella critica di Hodgskin si possa intravedere una proposta politica valida per l’oggi. Qualche lettore starà già riflettendo sulla natura velleitaria e antistorica delle tesi di chi vorrebbe far ritrovare al diritto naturale il posto occupato da quello positivo. Ma si può negare che di eccesso di diritto positivo oggi l’Europa è malata? Già allora i dati empirici di Hodgskin dimostravano che il suo argomentare era tutt’altro che balordo. Basti citare quanto accadde in Gran Bretagna fra il 1842 e il 1845, dove il combinato disposto di riduzione della tassazione indiretta, sui redditi e delle restrizioni commerciali fece crollare i rinvii a giudizio di un sesto.

La tesi di Hodgskin dice sempre Mingardi è ancora più radicale, e finisce per avvicinarsi a quelle più estreme del pensiero anarchico: poiché il popolo impara attraverso l’esempio, e poiché coloro che stanno al vertice della piramide statale sottraggono a tutti i denari per decreto, i più poveri si arrangiano dandosi al furto. Per Hodgskin il diritto penale fa solo gli interessi di chi comanda ed è già fuori dal tempo. Una tesi fin troppo ardita, al limite del populismo o, peggio, del sociologismo spicciolo. Ma su un punto Hodgskin ha certamente ragione: il tentativo del legislatore di modellare la società attraverso le regole è spesso velleitaria se non, purtroppo, controproducente.

Da La Stampa, 10 gennaio 2015

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