Il costo economico del coronavirus

«Quarantena» significa impedire di spostarsi a persone e merci

29 Gennaio 2020

La Stampa

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Ieri le borse hanno avuto un leggero rimbalzo, dopo la flessione di lunedì. Nel mentre, salivano i valori di yen, dollaro e oro: valute e bene-rifugio per eccellenza. È aumentato il prezzo di Bitcoin, che da un po’ di tempo ha preso a comportarsi portarsi come l’oro.

È difficile fare ipotesi, oggi, su quale sarà il costo del coronavirus in termini di vite umane: speriamo il più basso possibile. Quello economico potrebbe essere ingente.

Nel caso della Sars, la Cina si era mostrata restia a prendere le necessarie misure di profilassi e a condividere le notizie con la comunità internazionale.

Sta invece reagendo con risolutezza al coronavirus. Di fatto, si parla di una quarantena per milioni di persone. Un centro di primaria importanza economico-finanziaria come Shanghai ha abbassato la saracinesca, fino al 9 febbraio, a tutte le aziende che non siano utilities o che non operino in campo sanitario.

Quando il governo della seconda economia del globo si comporta così è naturale che cresca l’incertezza. Sono decisioni commisurate all’effettiva gravità della situazione? Ci sono informazioni che Pechino ha a disposizione e non sta ancora condividendo col resto del mondo?
Nel dubbio, gli operatori scelgono la prudenza. È fondata la percezione che il coronavirus rallenterà l’attività economica. La Sars influì negativamente sul tasso di crescita cinese e penalizzò tutta l’area, a cominciare da Taiwan e Hong Kong.

Scende il prezzo del petrolio, nell’ipotesi di una contrazione della domanda, a seguito della riduzione di attività e spostamenti. Ieri Facebook ha annunciato che limiterà i viaggi dei propri impiegati in Asia. «Quarantena» significa impedire di spostarsi a persone e merci. Bloccare le une e le altre ha un effetto negativo sulla crescita: vuol dire che certi beni e certe competenze non andranno dove sarebbero meglio impiegati.

I nostalgici del protezionismo raccontano un’economia nella quale a viaggiare sono prodotti, che passano dalle mani del produttore a quelle del consumatore e che potrebbero essere «frenati» senza grossi impatti. In realtà il grosso dello scambio internazionale è fatto di cose che servono a produrre altre cose. I loro prezzi sono intimamente legati, alle fluttuazioni di uno corrispondono cambiamenti, più o meno pronunciati, degli altri.

Anche gli Stati dovrebbero dar prova di prudenza. Se il coronavirus è destinato a insinuarsi nel delicato ingranaggio dell’economia globale, questo non è il momento per scelte azzardate. È vero in primis per l’amministrazione americana. Quale che sia l’obiettivo di Trump quando parla di dazi, oggi deve fare attenzione a non suffragare l’ipotesi che voglia indebolire il commercio mondiale.

Un po’ di prudenza ci vorrebbe anche per la variante europea del protezionismo, che è la regolamentazione. Nuove regole, per quanto dettate da motivazioni nobili, possono chiudere i nostri mercati a produttori di altri Paesi oltre ad aggravare i costi delle imprese. In una situazione come questa, in cui l’incertezza rende più fragili gli scambi internazionali e la volatilità è destinata ad aumentare, servirebbe una quarantena anche contro i cambiamenti delle regole del gioco.

da La Stampa, 29 gennaio 2020

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