Il comunismo vive ancora nei libri di scuola

Un saggio mette sotto esame i testi su cui studiano i nostri studenti. II giudizio? Tutti terzomondisti e ambientalisti

21 Ottobre 2024

Libero

Claudio Siniscalchi

Argomenti / Teoria e scienze sociali

All’inizio di febbraio del 1991, una consistente fetta di italiani svegliatisi comunisti, a fine giornata si coricarono non più comunisti. Si chiudeva un’epoca: la «via italiana» al «socialismo reale» era definitivamente morta e sotterrata. Prendeva avvio – almeno sulla carta – il tempo della storicizzazione del comunismo italiano, impossibilitato a proseguire dopo la caduta dell’impero sovietico nel 1989. Si chiudeva così, definitivamente, la stagione dell’illusione (la rivoluzione proletaria, l’eurocomunismo, la terza via). A tre decenni di distanza abbiamo una sola certezza: i conti con il comunismo non sono stati fatti. Anzi, come scrivono Andrea Atzeni, Luigi Marco Bassani e Carlo Lottieri in apertura del loro provocatorio saggio A scuola di declino. La mentalità anticapitalista nei manuali scolastici (Liberilibri, pagine 160,16 euro), ai «comunisti più che i conti si son fatti sconti».

CARNEFICI E COMPLICI

Non è solo un’anomalia italiana. Aleksandr Solzenicyn, poco prima di morire nel 2008, constatava amaramente come il comunismo fosse stato responsabile del «più grande massacro umano di tutti i tempi. Il fatto che la maggior parte del mondo sia ignorante e indifferente a questo enorme crimine è la prova che i media globali sono nelle mani dei carnefici».

Tralasciamo sofferenze, negazioni delle libertà, milioni di morti causati dall’ideologia assassina messa in piedi da Lenin, perfezionata da Stalin e difesa sino all’ultimo dai successori, come hanno potuto, con le unghie e con i denti. I tre autori si soffermano su un particolare: la «mentalità anticapitalista». Il comunismo, è bene ricordarlo, ha cercato di azzannare alla gola, con le armi e con le idee, laddove è stato possibile, il capitalismo. La caduta rovinosa dell’illusione ha cambiato la «mentalità anticapitalista» di quanti in Italia erano stati comunisti? Manco per idea! I comunisti non ci sono più (i pochi orgogliosi di esserlo sono una sparuta minoranza) ma la «mentalità anticapitalista» è viva, vegeta e cresce rigogliosa. Come dimostrarlo?

Gli autori sono andati a cercarla nei libri scolastici (storia, geografia, filosofia, diritto) di recente pubblicazione. «Nei volumi», scrivono «grazie ai quali si formano culturalmente le nuove generazioni (e da cui quindi traggono le loro informazioni di base sulla realtà economica e sociale) emerge con chiarezza la tradizionale avversione della cultura italiana verso la società industriale». E aggiungono: «Persino i libri di geografia […] sono quasi sempre strumenti di propaganda di tutte le più fruste superstizioni in tema di ambiente, così che le nozioni propriamente geografiche sono subordinate a discorsi fortemente ideologizzati e orientati ad accreditare ogni dottrina indimostrata dell’ecologismo più radicale». Ma la formazione scolastica non dovrebbe essere pluralista? Ecco la risposta: «Il mito della scuola pluralista non può reggere di fronte a una realtà così univoca e conformista, nella quale le voci sono tutte orientate allo stesso modo. I pregiudizi sull’impresa, sul mercato e sull’economia libera che in modo particolarmente pesante caratterizzano i libri adottati nelle scuole medie italiane (inferiori e superiori) appaiono comunque con grande evidenza».

LA REPONSABILITÀ

La principale responsabilità di questa deformazione è la lettura della società capitalista «latamente marxista, terzomondista e radicalmente ecologista». La rivoluzione industriale viene considerata una bolgia dantesca. Un inferno terreno. Responsabile di ogni nefandezza. Una schiacciasassi implacabile con i più deboli: «La malvagità dei capitalisti yen fuori con particolare limpidezza di fronte all’impiego di donne e bambini». Deturpa ogni cosa: la convivenza sociale come il paesaggio. Produce inesorabilmente alienazione. Marx aveva previsto tutto. E ha ragione anche quando ha torto. L’ideologia marxista assume una precisa fisionomia nel secondo dopoguerra. Dilaga nel Sessantotto. Il marxismo dell’epoca perlopiù è «immaginario».

Nel mezzo secolo successivo si mescola, scolorandosi, con varie miscele. Ha sfumature libertine, spiritualiste, ecologiste, politicamente corrette. E sempre rumorosamente in prima fila, sul banco dell’accusa, nei vari processi all’Occidente. Domina incontrastato la cultura veicolata dai mezzi di comunicazione di massa. Oltre a formazione scolastica, università, editoria, arte e spettacolo. Marx gradualmente viene riposto in soffitta. Però il marxismo «immaginario» sotto altre vesti si espande, orientando l’agenda politica: «Dall’ambientalismo al multiculturalismo, dal terzomondismo alla gender theory, dal globalismo politico all’esaltazione delle politiche volte a imporre – dall’alto – una conversione tecnologica che riduca la produzione di CO2».

Insomma, per farla breve, si stava meglio quando si stava peggio. Che la manualistica scolastica fosse orientata dall’ideologia anticapitalista era evidente. Il saggio di Atzeni, Bassani e Lottieri ne è una ulteriore e chiara conferma. Ma gli autori espongono un’allarmante quanto evidente preoccupazione. Con la fine del comunismo l’Italia ha smesso di crescere, nell’economia alla pari della demografia, trovandosi «all’avanguardia nel declino dell’Occidente e per alcuni versi ne prefigura i destini». Se le presenti e future generazioni scolarizzate continueranno ad abbeverarsi alla manualistica anticapitalista, la decrescita da infelice assumerà una fisionomia drammatica. Cosa fare per invertire la rotta non è compito agevole. Però è necessario.

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