I diritti al tempo della paura per il virus

Quando si è preda della paura, l'innata tendenza degli esseri umani al gregarismo si rafforza

27 Febbraio 2020

Corriere del Ticino

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Teoria e scienze sociali

La diffusione del virus influenzale Covid-19, comunemente noto come coronavirus, sta investendo la vita sociale in vari Paesi europei, con ripercussioni a ogni livello. Se in queste ore si è spesso richiamata l’attenzione sulle ricadute economiche di talune delle scelte dettate dalla necessità di far fronte al diffondersi della malattia, al tempo stesso è opportuno avvertire come la crisi in atto possa modificare il quadro delle relazioni giuridiche e degli istituti politici. In effetti, l’allarme generato dalla paura di essere infettati sta già in parte cambiando la società nel suo insieme, anche in ragione del fatto che sembriamo un po’ tutti disarmati di fronte all’eccezionalità della situazione.

Quando si ragiona su quali siano le scelte più opportune da compiersi, un punto cruciale è che siamo dinanzi a rischi di ardua valutazione. Ancora non sappiamo moltissimo di questo specifico virus e anche gli esperti stanno solo adesso iniziando a capire quale sia la sua “letalità”: in altre parole, che percentuale tra coloro che contraggono la malattia finirà davvero per morire. Il numero di quanti possono perdere la vita sembra piuttosto basso (anche paragonato ai morti per la normale influenza stagionale), ma dati certi ancora non si hanno.

Per giunta, quell’analisi costi-benefici che ognuno di noi compie prima di intraprendere un viaggio o prima di una qualsiasi scelta che comporti un piccolo o grande pericolo, in questo caso assume caratteri peculiari perché collettivi. Chi prende le decisioni di carattere igienico di cui si va discutendo non lo fa solo per sé, ma per tutta la comunità. Per questo il timore di sbagliare può ragionevolmente indurre a essere prudenti anche oltre il dovuto: perché si mette in gioco la vita altrui e, cosa ancor più importante, perché si è indotti a evitare critiche. Nella sua razionalità opportunistica, ogni uomo politico sa bene che è meglio eccedere in precauzioni che nell’opposto.

È anche doveroso chiedersi se esista la possibilità che scelte riguardanti la nostra vita quotidiana, entro una società che deve fronteggiare un virus come questo, possano essere lasciate ai privati. In altre parole, bisogna domandarsi se gli stadi debbano essere chiusi d’imperio o ci si possa limitare a invitare a non frequentarli; e la stessa cosa vale per i musei, i cinema, le scuole. In fondo, molto dipende dal giudizio che si dà sulle conseguenze, più o meno nefaste, della presenza di molte persone nello stesso spazio; e al riguardo le conoscenze sono tutt’altro che esaustive.

Oltre a ciò il coronavirus costringe a riconsiderare il rapporto tra la libertà individuale e le iniziative che producono esternalità, ossia che ricadono sugli altri e li espongono a situazioni di rischio. Come già si è detto, però, in un caso come questo non è facile definire il confine tra la legittima protezione da ogni genere di danno, da un lato, e l’illegittima restrizione della piena facoltà di agire (muoversi, lavorare, incontrarsi, ecc.), dall’altro.

Avvolti in questa nebbia fatta di ignoranza e incertezza, è comprensibile – anche se non è detto che sia davvero giusto e razionale – che ci si affidi alle decisioni prese d’autorità dal potere pubblico. D’altra parte, già Carl Schmitt aveva rilevato come la sovranità si definisca proprio nei «casi di eccezione». Quando si è preda della paura e ci si trova di fronte a qualcosa d’ignoto, l’innata tendenza degli esseri umani all’ubbidienza e al gregarismo si rafforza. Nelle situazioni di crisi, le logiche del diritto cedono di fronte alle pretese del potere.

Nel tempo del coronavirus, allora, è bene fare tutto il possibile per fare crescere il confronto pubblico: non solo in materia di scienza. Bisogna riuscire a capire quanto sia irresponsabile e illegittimo questo o quel comportamento, perché esso va censurato con la forza della legge solo se espone davvero gli altri a rischi di una qualche consistenza. Per sapere se si possa organizzare un incontro pubblico senza danneggiare il prossimo, insomma, bisogna rispondere a domande di questo tipo. Si tratta di discutere, in maniera pacata, sulle conseguenze di questo morbo (perché un untore che diffonde una semplice influenza non è paragonabile a chi propaga la peste) e sulla probabilità che un certo comportamento – la presentazione di un libro, ad esempio – possa favorirne la diffusione.

In questa situazione, battersi in difesa del diritto significa cercare di capire quale azione umana configuri una violazione dei diritti altrui. E se non si prova a rispondere a questa domanda e nemmeno ce la si pone, dato che si confida nei diktat delle autorità politiche, è fatale che le libertà e i diritti di tutti noi si trovino presto in una condizione assai difficile.

Da Corriere del Ticino, 27 febbraio 2020

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