La guerra nemica degli affari globali

Non è vero che il conflitto conviene a qualcuno. Tutta la società ne è travolta

20 Giugno 2022

La Provincia

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Economia e Mercato

Nel 1898 lo zar Nicola II, che vent’anni dopo sarà ucciso a Ekaterinburg dalla polizia politica sovietica, prese una coraggiosa iniziativa in favore del disarmo. L’obiettivo era quello di creare un ordine europeo meno esposto alla guerra, ma al tempo stesso era pure forte la preoccupazione degli sprechi dell’apparato bellico. Come scrisse il conte Michail Nikolaevic Muravev, ministro russo degli affari esteri, «si spendono milioni e milioni per acquistare spaventosi strumenti di distruzione che, oggi, costituiscono le ultime innovazioni partorite dalla tecnica, ma che presto verranno superati da nuove scoperte». Allo zar era chiaro che la logica della guerra s’oppone a quella della crescita economica e civile. Era questa una tesi che molti autori avevano sostenuto durante il diciannovesimo secolo: da Frédéric Bastiat a Richard Cobden, da Gustave de Molinari a Herbert Spencer (nei cui scritti lo spirito dei “mercanti” è opposto a quello dei “guerrieri”). Non è un caso che tre anni dopo, nel 1901, l’economista liberale Frédéric Passy abbia ottenuto il premio Nobel per la pace in ragione del suo impegno a favore di quella crescente integrazione economica che tende ad allontanare le ragioni di conflitto.

Le conseguenze
Quando ora ci chiediamo che conseguenze deriveranno all’economia dalla condizione di cobelligeranza di fatto in cui ci troviamo (perché non si saprebbe definire diversamente la posizione dell’Italia, che introduce sanzioni economiche a danno della Russia e rifornisce di armi l’Ucraina) dobbiamo tenere presente come tutto è già avvenuto più volte nel passato. In particolare, è chiaro che l’escalation bellicista causata dall’invasione militare voluta da Vladimir Putin sta ponendo al centro della scena gli interessi dei vari complessi militari-industriali, mentre al tempo stesso è messa all’angolo la globalizzazione, che per esistere ha bisogno di pace e libero mercato.

Appalti e mazzette
Da sempre quello militare è uno dei settori più corrotti dello Stato. Secondo le cronache, nel luglio scorso sono stati messi agli arresti domiciliari un generale e un colonnello dell’Aeronautica, accusati di avere incassato tangenti per forniture militari da 18 milioni. Secondo l’accusa gli ufficiali avrebbero preteso una busta del valore del 10% dell’appalto, insieme all’assunzione di alcuni familiari. Nessuno può emettere sentenze prima del processo, ma è chiaro che un settore come quello militare (interamente statalizzato e sottratto ai giudizi di quanti ricevono tali “servizi”, come invece avviene per la scuola o per la sanità) sembra destinato a generare facili arricchimenti illeciti.

I guai maggiori, però, derivano dal fatto che – ben al di là del bilancio della Difesa, pur così gravoso per il contribuente americano oppure russo – tutta la società è in qualche modo travolta da quel tribalismo che s’accompagna quasi fatalmente all’emergere dei conflitti e che abbiamo constatato, ad esempio, quando perfino Dostoevskij e Cajkovskij hanno subito una forma di censura. L’economia è stravolta dalla guerra non soltanto perché quest’ultima crea enormi problemi di approvvigionamento: come i rialzi degli idrocarburi e del grano attestano con chiarezza. Il sistema produttivo è sconvolto perché è in vario modo “nazionalizzato” e messo al servizio di un dirigismo da caserma che annulla gli individui e le imprese, poiché si focalizza su reali o presunti “interessi collettivi” (riguardanti l’Italia, l’Europa, l’Occidente, la Nato, ecc.).

In situazioni come queste, le sanzioni sono sempre il primo passo verso la costruzione di mondi separati, ma più in generale verso l’imporsi di una prospettiva geopolitica che innalza barriere di ogni tipo e rigetta l’idea di una crescente integrazione tra quanti vivono in differenti società. Sul piano economico, questo inabissarsi dei mercati globali comporta costi altissimi. Se oggi riusciamo a permetterci un certo standard di vita questo si deve, anche e soprattutto, alla possibilità di acquistare ovunque ciò che più ci aggrada.

Alla fine della seconda guerra mondiale l’Argentina era più ricca dell’Italia, ma quando decise di chiudersi al mondo entrò in un declino da cui non è più uscita. Le economie “regionali” (Cina, Europa, India, ecc.) che si profilano all’orizzonte sono analogamente autarchiche e rischiano di produrre le stesse conseguenze. Letta in una prospettiva economica, la guerra è dunque tante cose. È innanzi tutto devastazione umana e anche materiale, e quindi distruzione di capitale: così che oggi gli ucraini senza molti dei migliori giovani, ma anche privi di case, scuole, strade ecc. sono assai più poveri di prima.

Ma oltre a ciò il conflitto esprime il trionfo di una mentalità coercitiva e burocratica, mentre gli spazi della società civile e dell’economia libera si restringono. Ovviamente, gli studiosi di scuola keynesiana guardano agli effetti economici della guerra con occhi assai più benevoli. Poiché essi ritengono che si debba mettere in moto l’economia, in fondo un Paese da ricostruire comporta più lavoro per tutti… Entro questa prospettiva, veramente paradossale, non a caso Paul Krugman arrivò addirittura a sostenere che l’attacco terroristico alle Torri Gemelle avrebbe potuto “fare del bene all’economia”, dato che “la ricostruzione genererà almeno un certo aumento della spesa delle imprese”. Non è così: la guerra non comporta benefici reali. E l’unica cosa da auspicare è che finisca al più presto.

da La Provincia, 19 giugno 2022

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