Grazie, Robot

Un profetico testo sull'automazione scritto da Sergio Ricossa nel 1987

2 Marzo 2017

IBL

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Un anno fa si spegneva a Torino Sergio Ricossa. Economista accademico, raffinato saggista, divulgatore appassionato, Ricossa è noto ai più come principale editorialista economico de “Il Giornale” di Indro Montanelli. Ricossa è stato anche il primo Presidente del nostro Istituto ma soprattutto, quel che più conta, per lunghi anni una voce pressoché solitaria nel proporre “idee per il libero mercato” nel nostro Paese. Per questa ragione, nel nostro ricordo ciò che prevale è la gratitudine: gratitudine per il coraggio e l’onestà intellettuale, gratitudine per la sua vasta opera, gratitudine per quello che ci ha insegnato.

Ripubblichiamo un suo piccolo testo, “Grazie, Robot”, incluso in “Aspettando Robot. Il futuro prossimo dell’intelligenza artificiale”, a cura di Jader Jacobelli (ringraziamo l’editore Laterza per averne permesso la ripubblicazione). Sembra davvero scritto ieri.

***

La prima volta che ho giocato a scacchi contro un calcolatore elettronico, e ho subito perduto, ci sono stato male. Poi è intervenuto il pensiero, il mio pensiero, nella solita sua funzione consolatoria (o illusoria: è all’incirca la medesima cosa), e ora continuo a perdere, di regola, ma non soffro più, anzi mi diverto. Mi trastullo con l’idea che la macchina, per quanto mi batta, mi è inferiore in questo: essa non è libera, io sì. Lei non può impormi di giocare, io sì. Posso perfino imporle di giocare male.

Stando alla definizione di Valéry, sono più geniale della macchina. Diceva infatti Valéry: che cosa è il genio, se non l’arte di charmer la sofferenza? Charmer: aggraziare, e aggraziando consolare, rendere tollerabile. La macchina, presumo, non soffre, a differenza di me; quindi le manca addirittura il movente della genialità. Ha nulla da charmer, nulla di suo. È al mio servizio, ne faccio quel che voglio.

Insomma, ciò che l’uomo ha di più prezioso si connette paradossalmente, misteriosamente, alla propria capacità di soffrire e all’esistenza del male. La libertà e, fra l’altro, libertà di fare il male; ma è pure libertà di tentare di evitarlo o di addolcirlo a sé e al prossimo. Senza il male, da intendere e da combattere, non c’è atto di genio e non c’è scelta morale.

In certi racconti di fantascienza, il robot si ribella all’uomo. Questo presuppone che non sia più un mero strumento, che un uomo eventualmente può usare contro un altro uomo. Presuppone appunto la libertà del robot (il senso della libertà nel robot), la sua scelta morale, la sua sofferenza per la schiavitù: la sua umanizzazione nel senso più profondo della parola, che esige molto di più dell’intelligenza artificiale. È stato facile fabbricare macchine più abili di noi: più forti, più veloci, più resistenti alla fatica, meno soggette all’errore e che ci vincono al gioco degli scacchi. Ma non basta.

Non so se la macchina vincitrice sia più intelligente dello scacchista che perde. La macchina fa meno errori, ma sono errori che essa non può fare, è incapace di fare. Distinguiamoli dagli errori umani, cioè quelli che l’uomo può fare e può non fare (torniamo alla libertà), ma che per sperare di non farli deve in qualche modo lottare, soffrire (torniamo alla sofferenza), acquisire un merito. L’uomo moralmente meritevole non è l’uomo obbligato al bene: è il peccatore potenziale, che resiste alla tentazione. L’uomo può peccare e non deve peccare. Il suo errore può essere colpa, mentre non lo è per il robot.

Non lo è per il robot come lo conosciamo oggi. E il futuro amo considerarlo imprevedibile. Fin da ora abbiamo formidabili problemi di definizione e di accertamento. Che cosa è l’intelligenza, non importa se naturale o artificiale? C’è o non c’è il libero arbitrio nell’uomo? Che vorrebbe dire il libero arbitrio nella macchina? Ogni moralista dà per scontato che l’uomo disponga di libero arbitrio, senza poterlo provare definitivamente. Teniamoci qui alla larga da simili labirinti filosofici, e inoltre teniamoci alla larga dalla velleità di profetare. Il futuro sarà come lo vedremo, quando e se lo vedremo.

Il presente dell’economia è meno rischioso e opinabile, ed esso si limita alla macchina-strumento, al robot-servitore. Ubbidiente servitore (senza merito morale), abile servitore, capace di fare parecchio che noi non sappiamo fare altrettanto bene. Non ho paura che la macchina diventi sempre più intelligente e l’uomo sempre più stupido. Non vedo un nesso di causa ed effetto, o diciamo meglio che da sempre vi sono infinite vite per giungere alla stupidità e infinite vie per sfuggirle. Il robot non cambia i conti: se ci apre nuove vie per istupidire, ce ne apre altrettante per rinsavire. Mi pare che non ci siano mai vie a senso unico.

Il robot-servitore, mi domando, minaccia di rendere disoccupati i lavoratori, in carne, ossa e anima? È l’eterno interrogativo sollevato dalla macchina, anche dalla macchina non intelligente. Se la macchina è meglio di noi in qualche aspetto, per esempio nella forza, essa sembra spiazzarci, e in effetti ci spiazza, ma non riduce necessariamente la nostra occupazione globale. L’uomo forzuto troverà rifugio negli stadi, nelle palestre, nei circhi, dove vedere un uomo che solleva pesi ci diverte più che vedere un robot intento alla stessa opera. Molti di noi non coltiveranno più la forza bruta, rompendo con il passato. E molti altri, che mancano di forza per eseguire certi lavori pesanti, ora troveranno impiego con l’aiuto della macchina, la quale supplisce appunto ai nostri muscoli deficitari.

La macchina è spesso un complemento dell’uomo, un complemento senza il quale l’uomo è inabile al lavoro. Non è lecito guardare alla macchina esclusivamente come a una avversaria che ci fa concorrenza: è o può essere anche una alleata preziosa. Può farci comodo, come lavoratori, che essa abbia più forza di quanta ne abbiamo, più velocità, più resistenza alla fatica, più memoria, meno sbadataggine. Quando infine si dimostrasse che essa ha più intelligenza di noi, verrebbe voglia di sostenere che noi siamo il complemento della macchina, non viceversa. Ma potremmo pur sempre rimanere occupati come guardiani della macchina, poiché noi siamo liberi e lei è schiava (e se ne infischia di esserlo).

Vi sono inoltre così tanti generi di intelligenza, che è improbabile che la macchina ci sorpassi in tutti (considerato pure che siamo noi a costruirla). Sovente giudichiamo un uomo stupido soltanto perché non ha il nostro tipo di intelligenza: questo è uno dei motivi per cui l’intellettuale stenta ad apprezzare l’imprenditore e ne è ripagato con la stessa moneta.

L’economista, essendo un intellettuale pure lui, ha attribuito all’imprenditore il compito di rendere massima una funzione del profitto sottoposta a dati vincoli tecnici, eccetera. Nulla di più falso. Se l’imprenditore fosse davvero quel che dicono i vecchi libri di testo, l’imprenditore ottimo sarebbe proprio un calcolatore elettronico. Ma per fortuna i libri di testo raccontano favole.
L’imprenditore efficace, quello che fa la storia economica, non massimizza alcunché: invece innova, fa quel che nessuna macchina sa fare. Naturalmente non conosciamo bene il significato di «innovare». Si dice talvolta che «nuovo» è ciò che viene dal nulla, ciò che è pura invenzione. Se è così, nessuna macchina inventa, mentre ogni macchina è inventata dall’uomo, fino a prova contraria. L’inventore e l’imprenditore non sembrano destinati a essere sostituiti presto dal robot, almeno nell’economia di mercato.

Penso al caleidoscopio, macchina semplicissima che produce immagini colorate casualmente non prive di valore estetico. Ma non inventa il bello, come fa un artista, e tanto meno sa selezionarlo, riconoscerlo, perfezionarlo, senza l’intervento umano. Penso al computer che sa disegnare la caricatura di una persona. Ma lo fa seguendo istruzioni umane prestabilite, che gli impongono di esagerare secondo una formula data gli scostamenti del personaggio da un campione medio già calcolato e memorizzato per opera dell’uomo. Tutto è deduzione, nella macchina, niente è invenzione.

Ho l’impressione che il robot stia aiutandoci a capire che cosa è essenzialmente umano e non delegabile alla macchina, e che cosa non lo è. Inventare il nuovo è essenzialmente umano: è il lavoro dell’inventore, dell’imprenditore, dello scienziato, dell’artista. È lavoro creativo che ci dà gioia, l’opposto del lavoro come maledizione biblica. La grande rivoluzione di Marx mirava a sopprimere il lavoro-maledizione e a lasciare tutto lo spazio al lavoro-gioia, che egli chiamava «attività vitale dell’uomo», «autorealizzazione dell’individuo», «produzione della propria vita». In questo siamo tutti d’accordo.

Marx si rendeva conto che sopprimere il lavoro-maledizione era delegarlo alla macchina: resto d’accordo con lui, dissento sul seguito, che qui non ci importa. Delegare alla macchina non ci deve impoverire di funzioni gradite, ci deve piuttosto liberare dalla costrizione, dalla fatica, dalla noia. Nessun essere ragionevole vuole il pieno impiego ad ogni costo: il lavoro si giustifica soltanto se serve a produrre cose buone per sé e per gli altri, e meglio ancora se mentre lo compiamo proviamo interesse e piacere, ciò che la macchina non prova.

Ringraziamo il robot che ci fa concorrenza nel lavoro-maledizione: purché resti a noi più tempo libero per il lavoro-gioia (e per il gioco e ogni altra attività seducente). Certo, dobbiamo «guadagnarci da vivere»: rendere agli altri dei servizi, perché gli altri rendano dei servizi a noi, che ci sono necessari. Questa è la divisione del lavoro, la specializzazione di mercato (che a Marx dava fastidio). Per questo abbiamo paura che il robot, servendo gli altri meglio di noi, ci soppianti. Ma parlando in termini statistici, di massa, in una tale situazione il robot serve pure noi meglio degli altri; per cui se gli altri non hanno più bisogno di noi, noi non abbiamo più bisogno degli altri, per tutto quanto il robot sa fare meglio dell’uomo comune.

Nasce una dipendenza generale dal robot intelligente e, suo tramite, dall’inventore del robot intelligente. Ma è dalla sua origine che l’umanità dipende dall’inventore, dall’innovatore, che porta tutti avanti, alla scoperta del progresso. Né si può dire storicamente che costui, per le sue doti eccezionali, sfrutti l’umanità che si accoda e segue: casomai è vero il contrario, è l’umanità imitatrice che sfrutta l’innovatore e mai riesce, anche se lo volesse, a ripagarlo dagli incalcolabili benefici recati (di solito per sempre) dall’innovazione di successo, dalla conoscenza in più.

Nell’antica civiltà greco-romana si era disposti a pagare uno schiavo in vendita tanto più caro quanto più intelligente fosse. Nessun padrone si sognava di temere lo schiavo intelligente. Non vedo perché oggi dovremmo temere il robot intelligente, che serve tutti noi, si ribella anche meno dello schiavo e non solleva in noi alcuno scrupolo morale. (Non che il padrone antico avesse scrupolo di vantare un diritto di proprietà su un uomo: allora non si usava). Vivere col robot intelligente è meglio che vivere col robot stupido, dimostrato che esso non è il nostro sopraffattore, e anzi è il nostro cooperatore.

Così siamo anche più liberi di continuare lo scambio tra uomo e uomo, tra uomo e donna, purificandolo da molti impacci economici oggi presenti. Perché, è ovvio, per quante cose il robot intelligente sappia fare meglio del comune tipo umano, altre cose rimarranno sempre, spero, in cui il robot sarà inferiore. Non credo per esempio che mi innamorerò mai di un robot, qualunque sia il suo sesso, per quanto intelligente sia, per quanto lucide siano le sue curve metalliche, per quanto docile sia il suo carattere. Preferirò sempre una donna, anche se di carattere indocile.

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