Gratta la nostalgia, trovi i protezionisti

Di certo il protezionismo avvantaggia chi si accaparra sussidi e privilegi, ma alla lunga può anche danneggiare proprio chi si voleva salvaguardare

7 Agosto 2023

Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Diritto e Regolamentazione Politiche pubbliche Teoria e scienze sociali

I sovranisti hanno vinto. Negli Stati Uniti, Donald Trump sembra essere, oggi, il candidato con le carte migliori per guadagnarsi la nomination contro il suo successore, Joe Biden. I suoi avversari stanno provando a presentare qualche proposta. Fra costoro c’è anche l’ex vicepresidente di Trump, Mike Pence, che ha proposto un piano articolato per combattere l’inflazione. Una serie di misure che possano «sostenere» indirettamente l’aumento dei tassi della Fed, razionalizzazione della spesa biblica e semplificazioni che possano avere un effetto di riduzione dei costi di produzione e, dunque, dei prezzi. Anche nel piano di Pence ritorna però un classico del trumpismo: il rimpatrio delle produzioni «delocalizzate» fuori dal territorio americano. Che è diventato, in piena continuità, anche un mantra dell’amministrazione Biden: accorciare le filiere di fornitura, «comprare americano», riportare in patria la manifattura. In società dove l’età media è la più alta di sempre, è normale che domini il sentimento della nostalgia. La nostalgia politicamente più spendibile, quando si parla di politica, è per un mondo nel quale c’erano gli opifici, i prodotti erano tutte cose che si potevano toccare, i servizi un’attività residuale.

È su quella nostalgia che poggia il successo elettorale di molte ricette «sovraniste»: sull’idea che dobbiamo tornare a fare «cose», e nella misura in cui acquistiamo le «cose» fatte dagli altri ci dimostriamo fiacchi, deboli, destinati al declino. È la solita storia del dito e della luna. Si guarda agli occupati del settore manifatturiero e al suo peso in percentuale del Pil, che si sono fortemente ridotti negli ultimi quarant’anni. Non si guarda, al contrario, alla produzione, che è aumentata. La crescita della produttività è proprio questo: fare di più, con meno persone. Un articolo di Robert Lawrence del 2020 prende in esame 6o Paesi, fra il 1995 e il 2o11. Lawrence riscontra come i Paesi che hanno, nel manifatturiero, un surplus commerciale hanno visto la percentuale di occupati in quel settore diminuire leggermente di più di quanto non sia avvenuto invece dove c’è un deficit commerciale. La perdita di occupazione nel settore è stata sostanzialmente analoga nei Paesi che hanno ridotto in quell’arco di tempo le importazioni e in quelli che le hanno aumentate.

È l’effetto della tecnologia: ridurre la necessità di lavoro umano, “liberandolo” per altri fini. La perdita di lavori «manifatturieri» è avvenuta in tutti i Paesi avanzati, indipendentemente dalla situazione di partenza. Lo stesso vale per la riduzione del peso sul Pil.

Nelle economie più avanzate, i consumatori tendono a destinare una quota sempre minore della spesa nominale ai beni di consumo rispetto ai servizi. Metà dei consumi degli americani erano «cose» nel 1960, solo un terzo nel 2010. Questo non significa che le «cose» siano meno importanti nella nostra vita, ma semplicemente che siamo diventati più ricchi e possiamo permetterci servizi che una volta erano destinati a pochi oppure semplicemente non esistevano.

Mercati esteri
È chiaro che ci sono state e ci sono molte crisi nella manifattura: ma sono episodi specifici, che riguardano questa o quell’impresa, questo o quel prodotto. L’industria, nei Paesi occidentali, è più forte di quanto non racconti chi la vuole «proteggere». Parte della sua forza sta proprio nell’ essersi spostata verso produzioni a più alto valore aggiunto, le quali sono possibili anche in ragione di ciò che si vorrebbe ridurre: la «dipendenza» dall’estero ovvero l’integrazione economica.

È possibile concentrarsi su alcune produzioni proprio perché c’è chi si occupa di altre. Nel caso del nostro Paese, da tempo ormai l’unico contributo positivo alla crescita del Pil è dato dalle imprese manifatturiere esportatrici. L’avere a che fare con la concorrenza internazionale non le ha penalizzate: giocare contro avversari bravi, di solito, è anzi l’unico modo per migliorare. Più ancora, però, l’integrazione nei mercati internazionali ha consentito loro di specializzarsi, partecipando alla realizzazione di beni che ormai è difficile dire che passaporto abbiano. Il 70% dello scambio internazionale è dato da beni intermedi, da cose che servono a fare altre cose. Un’automobile tedesca è in non piccola parte italiana.

Il guaio, negli Stati Uniti come in Italia, è che coltivando la nostalgia stiamo scivolando nel paradosso. Trattiamo qualche cosa che «funziona» come fosse qualche cosa da «ricostruire», proponendo un mix di interventi incoerenti. Vogliamo che le imprese si inseriscano in una più ampia politica industriale, che in buona sostanza sostituisce obiettivi e bisogni da loro individuati autonomamente, con bisogni e obiettivi determinati per loro dai ministeri. Pensiamo di far loro del bene, e di recuperare occupati nei rispettivi settori, accorciando le filiere, mentre ignoriamo quanto la dipendenza sia reciproca ed essenziale per proprio perché quelle imprese possano operare al meglio. Anziché spingere sulla globalizzazione dei servizi, che potrebbe migliorarne l’efficienza e così indirettamente ridurre i costi per l’industria, vogliamo deglobalizzare la manifattura.

Come ha osservato Adam Posen, «il vero danno derivante dal decoupling e dal conflitto tra blocchi economici non è tanto rappresentato dalle barriere commerciali, ma dalla riduzione della crescita della produttività. Assisteremmo a un imbottigliamento dei risparmi in blocchi economici che non si muovono e che quindi ottengono rendimenti più bassi e volatili. Ci sarà una minore diversificazione sia dal punto di vista finanziario che dei fattori produttivi, comprese le idee e le pratiche commerciali, oltre a una minore concorrenza, che diminuirà direttamente la produttività».

Politiche di “protezione” dettate dalla nostalgia possono avere benefici nel breve termine, per chi riesce ad accaparrarsi sussidi e privilegi. Ma nel medio periodo strangolano proprio chi dovrebbero avvantaggiare.

Da Corriere della sera–Economia, 7 agosto 2023

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