Gli illiberali inconsapevoli

Quando il liberalismo si smarrisce, le critiche alla democrazia rischiano di aprire delle strade pericolose

12 Dicembre 2025

La Ragione

Carlo Marsonet

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Ai più il nome di Paolo Vita-Finzi (1899-1986) dirà poco. Non si tratta di un accademico o di un pensatore in senso proprio. Non ha elaborato nulla di sistematico, benché si tratti comunque di un intellettuale sui generis (non ascrivibile però ad alcuna precisa scuola di pensiero). Dopo aver svolto l’attività di pubblicista, che del resto non abbandonò mai, sarebbe diventato un diplomatico. Semplicemente un intellettuale liberale, come lo ha definito Francesco Perfetti nel bel saggio che apre il volume dell’autore torinese del 1961 e da poco ristampato: Le delusioni della libertà.

Pubblicato nell’elegante collana dei “Liberalismi eccentrici” dell’Istituto Bruno Leoni e curato da Claudio Giunta, il volume fa capire ciò che stava a cuore a Vita-Finzi: la libertà, la democrazia rappresentativa, il realismo come strumento attraverso il quale leggere l’intera esperienza umana. E lo fa attraverso dei medaglioni, molti dei quali usciti nella metà degli anni Cinquanta su Il Mondo di Mario Pannunzio. Testi intesi a presentare quelli che ritiene dei precursori inconsapevoli di quella critica alla democrazia che avrebbe portato poi al fascismo (tra cui qualche nome non può che far discutere). Si va dai francesi Charles Péguy, Georges Sorel e Daniel Halévy agli italiani Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca e pure Benedetto Croce, uno di quelli che forse ne escono pure peggio.

A ogni modo, per capirne la struttura di pensiero sono cruciali sia lo scritto di Perfetti sia quello di Giunta. Il primo mette a fuoco le coordinate del liberalismo di Vita-Finzi. Cresciuto in un ambiente liberale nel culto del Risorgimento, egli non seguì la Torino dei Gobetti e dei Gramsci, che pure conosceva. Il suo, scrive Perfetti, equivaleva più che altro a «un modo sobrio e ordinato d’intendere la vita», che perciò non troppo si discosta da quello di Luigi Einaudi o di Filippo Burzio. Non intendeva dunque il liberalismo come dottrina e prassi rivoluzionaria e giacobina, alla Gobetti. «Un liberale leggermente favorevole a moderate riforme sociali», scriverà nella sua autobiografia uscita postuma.

Se così è, Vita-Finzi non poteva che provare fastidio per tutti coloro i quali, di destra o di sinistra che fossero, manifestassero intenzionalmente o meno una certa tentazione di abbattere l’esistente per costruire il paradiso in terra. Oppure avessero la tentazione, tipica di molti intellettuali, di guidare le masse verso i propri progetti: non è un caso che Alberto Mingardi abbia definito il libro un plastico esempio della letteratura sul tradimento dei chierici.

Giunta ricorda la coerenza profondamente liberale di Vita-Finzi, il quale fu autore, tra gli altri, di volumi sull’Unione Sovietica come Grandezza e servitù bolsceviche. Sguardo d’insieme all’esperimento sovietico (1934) e Terra e libertà in Russia da ieri a oggi (1972), e pure di Perón mito e realtà (1973). Così l’esperimento sovietico veniva definito «il più grande atto di violenza che l’umanità sinora ricordi», mentre Perón, idolatrato da molti (ancora oggi), un personaggio ignorante e maldestro ma comunque assai vicino, e pericolosamente, agli umori delle masse.

Per Vita-Finzi un conto è pensare di riformare le istituzioni e tutto ciò che ha a che fare con l’uomo, mantenendo però ferma la convinzione, con scetticismo o forse solo realismo, che nulla di perfetto può scaturire da qualcosa che per sua natura non può essere raddrizzato. L’altra via, cioè quella magari inconsapevolmente ventilata di distruggere ciò che esiste per qualcosa dai contorni incerti ma dal forte carattere ideale, conduce su un binario potenzialmente disastroso: come hanno dopotutto affermato vari autori, la pulsione totalitaria fa parte dello stesso tessuto democratico (e forse anche degli istinti tribali dell’individuo). Meglio non titillarla, dunque. Magari già a partire dalle parole.

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