Giudici, non legislatori

Leggi e interpretazione, dilemma sempre attuale. Sul libro IBL dedicato a Antonin Scalia

21 Novembre 2022

Libertà

Argomenti / Diritto e Regolamentazione

Da sempre ci si chiede fino a che punto possono spingersi i giudici nell’interpretare la legge. Il problema si poneva negli Stati assoluti, e si ripropone negli Stati democratici: se il giudice interpreta la legge in modo troppo disinvolto, crea delle nuove norme senza avere una legittimazione da parte del popolo, e dunque sconfina nei poteri che spettano al Parlamento. Ma se si attiene troppo rigorosamente alla lettera della legge corre il rischio di non riuscire ad adeguare le norme legislative ai casi concreti che deve giudicare, e alle sempre più rapide evoluzioni della società.

È un dilemma che è stato affrontato in mille modi diversi: e per il quale Antonin Scalia ha proposto una soluzione abbastanza particolare, come ci ricorda il volume pubblicato da Ibl libri in cui Giuseppe Portonera tratta del pensiero di questo giurista statunitense. Scalia, che sino alla morte avvenuta nel 2016 è stato giudice della Corte suprema per quasi tre decenni, sosteneva e applicava il metodo di interpretazione cosiddetta originalista: in sostanza, le leggi e le Costituzioni dovrebbero essere lette secondo il significato che avevano al tempo in cui sono state emanate.

Ovviamente un metodo di questo genere può favorire tendenze conservatrici: e negli Stati Uniti ha rappresentato una reazione alle letture della Costituzione molto avanzate, ma talvolta creative, che erano venute dalla Corte suprema tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, durante la presidenza di Earl Warren. Ma potrebbe accadere anche l’opposto, se una legge viene interpretata da giudici che sono più conservatori del Parlamento che l’ha emanata: in Italia era accaduto con la legge 2248/1865, che per meglio tutelare i diritti dei cittadini aveva attribuito le controversie con la pubblica amministrazione al giudice civile, ma che non era stata applicata da magistrati cresciuti ai tempi dell’assolutismo.

Pervero la bontà delle tesi di Scalia sull’interpretazione è quantomeno dubbia. Ma esse servono a ricordare che chi interpreta la legge non dovrebbe cedere alla tentazione (squisitamente aristocratica, e quindi ben poco democratica) di volersi sostituire al legislatore anche quando ritiene di essere tecnicamente più accorto di lui: una tentazione a cui, data la non eccelsa qualità della normativa degli ultimi decenni, può essere facilmente indotto anche il più umile tra gli interpreti.

dalla Libertà, 20 novembre 2022

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