Non tocca ai giudici fare le leggi: il dogma della Corte suprema

Un saggio su Antonin Scalia, per 30 anni autorevole toga Usa, aiuta a capire l'attuale orientamento della magistratura federale

20 Luglio 2022

La Verità

Argomenti / Diritto e Regolamentazione

Lo splendido saggio di Giuseppe Portonera su Antonin Scalia (Ibl libri, 212 pp., 14 euro) non è solo una biografia ragionata né un mero libro di storia del diritto (comunque accessibile anche ai «laici», ai non «chierici»). È piuttosto un mirabile lavoro sulla storia delle idee e – vorrei dire – delle idee in azione: su come un principio e un nucleo di convinzioni possano sfidare una condizione inizialmente minoritaria e imporsi anche oltre la vita del loro portatore, e su come quella base ideale possa incidere su una società e su un tempo, esercitando una straordinaria influenza civile, politica e culturale.

Com’è noto, Scalia, scomparso sei anni fa, è stato per circa un trentennio membro autorevolissimo della Corte suprema americana, ed è stato soprattutto animatore della scuola giuridica detta «originalismo» o «testualismo»: la tesi di fondo è che il giudice, a maggior ragione un giudice costituzionale, debba interpretare le norme stando al «testo», cioè al significato che un cittadino medio ragionevole avrebbe attribuito a quelle parole al tempo dell’entrata in vigore della norma.

Portonera spiega magistralmente i tre effetti di questa impostazione. Primo: no al giudice «demiurgo», all’interprete libero dei mitici «cambiamenti sociali». Il giudice deve applicare la legge così com’è, non come vorrebbe che fosse: deve attenersi al tenore letterale (oggettivo) delle disposizioni, senza inseguire (operazione fatalmente soggettiva) l’intenzione del legislatore, meno che mai modellandola o dilatandola a decenni o secoli di distanza. Quindi si tratta di un coraggioso contrasto al judicial activism, a un uso della giurisprudenza per forzare o riscrivere le norme, per legiferare surrettiziamente.

Sintetizza benissimo Portonera: non si tratta solo di rispettare il principio «no taxation without representation», ma di integrarlo con un «no social trasformation without representation». In altre parole, tocca al legislatore scelto dai cittadini, e non a un magistrato, «innovare» – nel senso di una riscrittura delle norme. Si badi bene: Scalia compie questa scelta non solo per un sano spirito di judicial restraint e per adesione ad alcuni principi sacri (separazione dei poteri e soprattutto loro limitazione, oltre che federalismo, e dunque potere più diffuso che accentrato), ma anche perché sa che proteggere o addirittura imporre una novità per via giudiziaria sarebbe un’arma a doppio taglio, un’operazione politica arbitraria, divisiva, facilmente reversibile.

Secondo effetto: questa scelta di attenersi al testo è la miglior garanzia della certezza del diritto, della sua comprensibilità per l’opinione pubblica, della miglior tutela per il più debole. Dunque, il giudice deve astenersi il più possibile da elementi extratestuali, da considerazioni politiche-sociali-economiche: deve discernere, non riscrivere.

Terzo effetto: non c’è volontà di «mitizzare» la legge, bensì di «laicizzarla», di legarla al preciso significato scelto dal legislatore in un dato tempo. Più tardi la sensibilità comune è cambiata? Benissimo: ma allora starà al legislatore (scelto dal popolo), e non ad altri, cambiare la norma. E proprio questa accortezza indurrà i cittadini a un maggiore rispetto delle leggi: perché accresce in tutti la consapevolezza di partecipare (sia pure indirettamente, attraverso la scelta dei propri rappresentanti) alla stesura delle norme.

Si badi bene: Scalia era culturalmente un conservatore. Ma questi suoi principi giuridici non a caso piacciono anche ai libertari, e perfino a chi, a sinistra, non sia desideroso di imporre per via giudiziaria ciò che non può ottenere per via politica. E oggi, anche grazie alle nomine volute da Donald Trump, quello originalista-testualista è l’orientamento maggioritario nell’attuale Corte suprema Usa. Si spiega così la recente sentenza del 24 giugno scorso con cui la Corte, annullando la sentenza del 1973 Roe vs Wade, ha stabilito che le decisioni in materia di aborto debbano essere riassegnate ai parlamenti dei singoli stati Usa.

Si tratta di una decisione che ha aspramente diviso i giuristi: favorevoli gli originalisti, schierati per un’interpretazione costituzionale alla lettera (e nella Costituzione non si parla di aborto); assolutamente contrari i liberal, orientati a favore di un’interpretazione costituzionale evolutiva (concetto ovviamente più politico e discrezionale). Naturalmente, in un contesto politico patologicamente polarizzato, ne è sorto un pandemonio, con attacchi selvaggi alla Corte arrivati tra gli altri da Joe Biden, Barack Obama, Hillary Clinton e Nancy Pelosi. I quali hanno finto di dimenticare un paio di cose. Primo: che comunque la palla passerà a parlamenti eletti dai cittadini, quindi con massime garanzie democratiche. Secondo: che si può essere convintamente pro choice (cioè persuasi che le norme debbano in ultima analisi lasciare un’amplissima possibilità di decisione alla donna in materia di interruzione della gravidanza), e al tempo stesso, in omaggio alla linea testualista, non vedere nulla di male nella fattispecie nel fatto che la competenza normativa passi ai parlamenti dei singoli stati, e quindi agli elettori.

Il bellissimo saggio di Portonera, dunque, ci aiuta a capire anche le sfide dell’oggi. E ci consegna pure una meravigliosa lezione umana: la grande amicizia di Scalia con Ruth Bader Ginsburg, una giurista liberal di opinioni opposte alle sue (a sua volta scomparsa di recente). Ma ci si può sfidare sul terreno delle idee senza odio, anzi con reciproca stima e ammirazione.

Da La Verità, 20 luglio 2022

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