Una delle parole che oggi più ricorre nel dibattito politico e istituzionale è “giurisdizione”, che il più delle volte è espressa nella formula “cultura della giurisdizione”. Che cos’è la “cultura della giurisdizione” è affare che oscilla tra il sofisma e il mistero. La giurisdizione, infatti, non esiste in un mondo a parte ma è parte di questo mondo e, soprattutto, non esiste senza il riferimento testuale alla legge. Se così non fosse si genererebbero due mostruosità giuridiche: l’indipendenza del giudice rispetto alla legge e la trasformazione del diritto in una forma ignota di superdottrina o superconoscenza. Purtroppo, queste due mostruosità giuridiche sono oggi dottrine molto accreditate da cui spesso dipendono il ruolo del giudice e l’interpretazione della giurisdizione a tutto vantaggio del “ceto dei giuristi”.
L’attualità e la inattualità à la Nietzsche di questo discorso sono date senz’altro dalla riforma Nordio — su cui gli italiani si esprimeranno con un referendum in primavera — e dal gravoso relativo peso che l’amministrazione giudiziaria ha assunto non soltanto nella vita istituzionale ma anche — ahimè — soprattutto nella nostra nuda vita quotidiana. Ecco perché si consiglia vivamente la lettura e la diffusione del libro di Raimondo Cubeddu e Pier Giuseppe Monateri: “I signori del diritto. Il potere più irresponsabile” (IBL Libri).
Nicolò Zanon firma la chiarissima prefazione del testo, che si basa soprattutto sulla necessità di rimarcare che l’indipendenza del giudice (e della magistratura più in generale) e quindi la sua autorevolezza e credibilità non è indipendenza dalla legge. Al contrario, il giudice — nell’ambito della dottrina classica dello Stato costituzionale di diritto — è indipendente solo perché è soggetto alla legge, altrimenti la sua funzione scivolerebbe via verso l’arbitrio e la politica: «Indipendenza del giudice e sua soggezione alla legge sono le due facce della stessa medaglia: l’una non è possibile senza l’altra».
Senza la legge non c’è il giudice. Questa è la posizione classica, che è tutta basata sul concetto irrinunciabile della limitazione del potere che riguarda tutti i poteri statali; esecutivo, legislativo e giudiziario. Però oggi si tende a intendere, maldestramente, l’indipendenza della magistratura come autonomia rispetto al potere legislativo, generando così il convincimento che la magistratura debba interpretare la legge stessa fino a poter opporsi legittimamente a essa. Ma in questo modo a essere capovolto è proprio il concetto di indipendenza della magistratura che la Costituzione italiana riconosce. Infatti, mentre l’indipendenza assicurata al parlamentare ha lo scopo di consentirgli di svolgere una funzione politica, l’indipendenza assicurata al giudice ha l’obiettivo opposto, quello cioè di impedirgli ogni discrezionalità politica. Se così non fosse, in gioco ci sarebbe non solo la separazione dei poteri ma anche il principio della sovranità popolare (a sua volta limitato costituzionalmente e, verrebbe da dire, ontologicamente).
Come si può capire, la condizione culturale — e, in verità, non solo culturale — nella quale noi oggi ci muoviamo e nella quale abbiamo vissuto per tanto tempo è capovolta rispetto al concetto classico dell’indipendenza del giudice: oggi l’indipendenza del giudice è interpretata e sentita proprio in chiave politica. Ma il giudice che diventa politico — sia sul piano nazionale, sia sul piano internazionale — smette di essere una figura di garanzia e veste i panni opposti del tiranno. Allo stesso modo, il diritto invece di essere una fonte di tutela delle libertà individuali diventa l’origine della nuova forma di tirannia. L’alimentazione e la diffusione di una rigorosa cultura costituzionale o dei limiti dei saperi e dei poteri sono quanto mai necessarie per la salvaguardia delle libertà dallo stesso diritto.