Fortuna, immaginazione e creatività arricchiscono

La storia di Edmund Phelps è quella del '900, raccontata attraverso le lenti di uno dei più grandi economisti del XX secolo

19 Luglio 2024

La Ragione

Carlo Marsonet

Argomenti / Economia e Mercato

Edmund Phelps (1933) è uno dei più grandi economisti viventi. Premio Nobel per l’economia nel 2006, ha posto l’attenzione sulla capacità di innovare, sulla creatività e sull’immaginazione delle persone come molla per l’economia: è il tema del suo “Mass Flourishing. How Grassroots Innovation Created Jobs, Challenge, and Change” (2013). L’anno scorso è uscita la sua autobiografia per la Columbia University Press, ora disponibile anche in lingua italiana grazie a IBL Libri.

Come si evince già dal titolo rimasto pressoché identico alla versione inglese, “I miei viaggi nella teoria economica”, Phelps fa immergere il lettore nella sua storia personale. Ne emerge un racconto del Novecento attraverso le lenti di un economista di spessore a cui però – e lo sottolinea lui stesso nella frase finale non è certo mancata la fortuna: un elemento che molto spesso si dimentica, ma che in realtà è fondamentale per qualsiasi storia di successo. Non sono infatti solo le scelte fatte a delineare i contorni della propria vita, ma anche processi casuali messi in moto da una miriade di situazioni al di fuori del nostro controllo: un insegnamento che vale la pena ricordare per rifuggire certe ‘presunzioni fatali’.

La storia di successo di Phelps può forse essere fatta risalire a due corsi in materie umanistiche e filosofiche che seguì all’Amherst College (Massachusetts). Il futuro premio Nobel ricorda quanto il primo contribuì «a plasmare la mia visione della vita e il mio lavoro». Leggere la tragedia greca e gli scrittori della Roma antica, Erasmo, Lutero, Montaigne, Cervantes e Shakespeare gli insegnò l’importanza della capacità dell’uomo di agire, esplorare e mettersi alla prova. Il secondo corso su Platone, Hume e Bergson gli instillò la convinzione del molo cruciale svolto dall’immaginazione e dalla creatività: tutti questi elementi sarebbero stati poi fondamentali per la sua teoria della «fioritura di massa». Pensando di laurearsi in filosofia, Phelps virò poi sull’economia. Non si sarebbe però ‘dimenticato’ della prima e lo dimostra quanto appena scritto, così come l’amicizia che sviluppò con filosofi di primo piano come John Rawls e Thomas Nagel. Dopo il dottorato a Yale passò per la Rand Corporation, la Cowles Foundation di Yale e la University of Pennsylvania, per approdare infine alla Columbia.

Sono diversi i nomi di rango che ricorrono nel libro: dal rapporto con James Tobin a quello con Peter Samuelson, per citarne alcuni. Ma quello che preme sottolineare è l’idea, sviluppata anche grazie alle proficue collaborazioni intellettuali avute, della «innovazione indigena». Per Phelps, l’approccio neoclassico schumpeteriano non aveva colto che il dinamismo capitalistico non è il frutto degli incentivi che esso offriva. Piuttosto esso deriva dalle persone stesse «stimolate da un ethos emergente»: individualismo, vitalismo ed espressione di sé costituiscono il bagaglio culturale del moderno benessere, non solo economico ma anche umano.

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