Elly celebra il funerale del referendum

Mentre in altri stati europei le consultazioni popolari sono importanti, in Italia l'inimicizia con la democrazia diretta ha radici profonde

16 Giugno 2025

Il Giornale

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Teoria e scienze sociali

A poca distanza da Milano, in quel pezzo di Lombardia che la storia dei secoli passati ha collocato all’interno dei confini svizzeri, la democrazia diretta è molto apprezzata. Quattro volte all’anno i cittadini sono convocati per dire la loro su questioni comunali, cantonali e federali, e nessuno rinuncerebbe a tale prerogativa. Il cittadino svizzero è talmente legato alla possibilità di votare su ogni cosa che considererebbe una grave violazione dei principi della convivenza civile il venir meno di questa opportunità.

Da noi, invece, il referendum se la passa davvero male, e le ragioni sono evidenti. Sebbene alcune votazioni popolari abbiano avuto un ruolo importante nella politica italiana di mezzo secolo fa, in seguito le cose sono cambiate. Più volte, d’altro canto, la cittadinanza s’è espressa in un modo e il ceto politico ha fatto finta di nulla. Basti pensare alla privatizzazione della Rai, alla chiusura di vari ministeri, alla fine del finanziamento pubblico dei partiti. In tutti questi casi la decisione emersa dalle urne è stata bellamente ignorata; e siccome la gente non ama essere presa per i fondelli, l’istituto referendario ha progressivamente perso ogni prestigio.

La classe dirigente del nostro Paese è talmente ostile alle logiche del voto popolare che quando i britannici scelsero la Brexit non pochi commentatori sostennero che nel Regno Unito il ceto politico avrebbe posto rimedio alla cosa: come se a Londra fosse possibile ribaltare la scelta degli elettori. L’inimicizia tra la Repubblica italiana e la democrazia diretta, d’altra parte, ha radici profonde. Già nella Costituzione del 1947, in effetti, il ricorso alla democrazia diretta fu introdotto in maniera limitata. In primo luogo, diversamente da quanto avviene in Svizzera, da noi il voto popolare è soltanto abrogativo. Oltre a ciò fin dall’inizio si decise che un conto è parlare di democrazia in astratto e altra cosa, invece, è ritenere che questioni come il fisco oppure le relazioni internazionali possano essere decise dalla cittadinanza. Risultato? Con l’articolo 75, comma 2, queste materie sono state tolte dall’ambito di quelle disponibili. Ovviamente in Svizzera non è così. Per di più a Lugano e a Zurigo non c’è alcun quorum: quelli che votano decidono (anche se alle urne si reca solo il 20%). Come s’è visto ormai innumerevoli volte, per giunta, la presenza di un quorum fa sì che tutti coloro che sono per il «no» (quale che sia il quesito: clericale o laicista, di destra o di sinistra) hanno tutto l’interesse a fare propri i non votanti abituali e a invitare, di conseguenza, all’astensione.

Con il loro assurdo tentativo d’ingessare ancor più il mondo del lavoro, allora, la Schlein e Landini hanno insomma celebrato il funerale di un istituto che era moribondo fin dalla nascita.

oggi, 16 Giugno 2025, il debito pubblico italiano ammonta a il debito pubblico oggi
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