Ego te baptizo piscem

I bilanci non possono essere fatti di inganni linguistici

16 Aprile 2019

IBL

Argomenti / Politiche pubbliche

Sono anni che ci scervelliamo su come risparmiare soldi pubblici, e finalmente il governo ha trovato l’uovo di colombo. Basta dichiarare e appostare (in deficit) un fabbisogno superiore di risorse per poi dire, una volta verificato che ne servano di meno, che si è trovato un tesoretto.

Così, il ministro Di Maio ha dichiarato che, dalle stime sulle domande di quota 100 e reddito di cittadinanza, avanzerà qualche centinaio di milioni di euro che potranno essere riutilizzati per aiuti alle famiglie. Ma davvero per generare minore spesa è sufficiente annunciare esagerare con le previsioni?

I bilanci non possono essere fatti di inganni linguistici: che RdC e quota 100 non costino quel che si pensava non vuol dire che generino risparmi. L’uso del termine «avanzare» genera invece l’equivoco che ci sia un surplus di bilancio.

Le parole dovrebbero essere importanti, specialmente in un discorso pubblico contaminato da un doloso uso distorto dei vocaboli.
Lo è nel caso dei soldi «avanzati», come lo è nel caso della flat tax a tante aliquote quante la politica sa immaginarne.

Da un lato, c’è chi accusa il Governo di essere pronto a varare la flat tax (intendendo con tale termine un’imposta sul reddito con un’unica aliquota), e inalbera il vessillo della progressività. Dall’altra, l’esecutivo dice di voler adottare la flat tax, ma poi spiega che si tratterebbe di un’imposta che prevede multipli scaglioni e multiple unità impositive (l’individuo nei giorni pari, il nucleo famigliare in quelli dispari). In pratica, la maggioranza leghista chiama flat tax una riforma che flat non è, ammiccando gli elettori ai quali l’ha promessa senza tuttavia impegnarsi a realizzarla sul serio e senza quindi scontentare quella parte dell’elettorato di maggioranza che non la vuole. Intanto l’opposizione va alla carica contro un’imposta che è piatta solo nel nome, ignorandone la sostanza, e anch’essa offre ai suoi elettori lo spettacolo che aveva promesso loro.
Il tempo degli inganni linguistici durerà finché l’opinione pubblica si accontenterà delle parole. Prima ci si accorgerà che non basta battezzare la carne in pesce per poterla mangiare di venerdì, prima i governanti saranno costretti a chiamare le cose col loro nome e prima, forse, potremo tornare a ragionare sui problemi del nostro Paese.

17 aprile 2019

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