Dove casca il dirigismo della Rete by Bassanini a favore di Vivendi

Il decisore pubblico sa che “scegliere il vincitore” è un esercizio rischioso anche, forse soprattutto, quando si parla di tecnologie

9 Agosto 2017

Il Foglio

Franco Debenedetti

Presidente, Fondazione IBL

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Certo, non c’è il due senza il tre. Certo, omne trinum est perfectum. Ma la “Santissima trinità” delle reti proprio no. Più che una bestemmia, è un’eresia: la rete telefonica non potrà mai “procedere” da quella elettrica e del gas, per la sostanziale natura che da quelle la differenzia. Infatti, mentre l’energia elettrica è prodotta in centrali, il gas viene estratto da pozzi, e l’una e l’altro vengono trasportati agli utilizzatori finali, in una rete telefonica i prodotti voce e dati sono creati dai clienti che se li scambiano tra loro. La rete fisica-rame, cavo, fibra, ponti radio, centraline è una cosa distinta dalla rete logica che, tramite calcolatori e programmi software, assicura che la comunicazione sia spacchettata all’origine, convogliata e “reimpacchettata” a destinazione senza errori.

Di quale rete parla dunque Franco Bassanini, quando, con sicura determinazione, afferma intervistato dalla Stampa lunedì che nel futuro di Telecom (oggi Tim) ci sono solo due opzioni, o vendere la sua a OpenFiber o “staccarla”? Dove traccia la linea divisoria tra infrastruttura e servizio? Vorrà pure dire qualcosa se in tutto il mondo (tranne che a Singapore, Australia e Nuova Zelanda) nessuna telco né ha venduto la rete né è stata obbligata a farlo? Parentesi: contrariamente a quello che Bassanini vuol fare intendere, la separazione societaria di open access è una forma organizzativa interna, richiesta dal regolatore ai fini di evitare contenziosi con altri operatori in merito all’accesso in condizioni paritarie alla essential facility, che resta di proprietà British Telecom. Chiusa la parentesi.

Logico che il presidente di OpenFiber canti le lodi della propria rete interamente in fibra. Ma il decisore pubblico sa che “scegliere il vincitore” è un esercizio rischioso anche, forse soprattutto, quando si parla di tecnologie, ancora di più in un settore dove cambiano con tale rapidità. Quello che conta è la prestazione, e per quella c’è un regolatore che vigila. Bassanini ha probabilmente ragione quando rivendica la funzione di “pungolo competitivo” che ha avuto nello stimolare Tim ad accelerare i propri investimenti, lanciando il piano da 11 miliardi in tre anni, il più grande in assoluto in Italia, con il quale i 30 Mb/sec saranno garantiti nel 2017 all’85 per cento e l’anno successivo al 95 delle famiglie italiane. In aggiunta alla copertura del mobile in 4G, dove con il 97 per cento (98 entro fine anno) siamo tra i migliori in Europa. Su un totale di 150.000 cabinet (armadi), 98.000 sono già collegati in fibra ai backbone, sicché i dubbi che Bassanini solleva sull’adeguatezza del concorrente a fare lo stesso anche con il 5G, oltre che poco eleganti paiono anche poco fondati. Che la rete telefonica fosse, di fatto, un monopolio naturale, è stato per anni considerato un fatto negativo, nonostante tariffe e prestazioni fossero stabiliti dal regolatore. Adesso sembra che si stia riuscendo a fare una seconda rete. A che prezzo tra Enel, Cdp, incentivi statali e con quale utile speriamo di riuscire almeno a ricostruirlo. Ma soprattutto che senso ha ritornare alla casella di partenza, travasando l’una nell’altra? Il monopolio (di stato) che avremo ricostituito lo chiameremo artificiale?

Ma quello che lascia più che perplessi, interdetti è la logica di tutta l’operazione proposta da Bassanini. Logica economica: il valore della rete Tim è stimato intorno a 15 miliardi, quasi un punto di pil. I soldi per comprarla sono del contribuente: con quale beneficio economico, se non quello di eliminare un concorrente a Open Fiber? E soprattutto logica politica. E’ opinione degli analisti che la divisione dei profitti tra fornitori di contenuti e fornitori della connettività con cui scambiarli sia in prospettiva nettamente a vantaggio dei primi. Vivendi intende utilizzare Tim, di cui fortuitamente è diventato azionista di riferimento, per facilitare la distribuzione dei contenuti che ha e di quelli che cerca di acquisire. 15 miliardi dalla rete, più il provento della vendita di Tim Brasil, che quindi non avrebbe più nessun ragione per non vendere: un bel tesoretto per la sua campagna acquisti. In Europa, e, perché no, anche in Italia.

Da Il Foglio, 9 agosto 2017

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