Da qualche mese, con giudizio unanime, ci siamo accorti che le politiche protezioniste fanno danni. Questa è già una notizia, visto che, prima dei dazi di Trump, era tutto un “dipende” e un distinguo. L’Inflation Reduction Act, ad esempio, veniva giudicato più strategico che dannoso.
Dazi e negoziati bilaterali sono uno dei tanti modi, coerenti con l’idea che la globalizzazione abbia fatto più vittime che conquiste, di pensare all’immediato ritorno economico nell’economia interna, senza badare troppo agli effetti a medio-lungo termine e su scala generale. Se il presupposto culturale verso la globalizzazione o, come molti la chiamano, il neoliberismo è questo, dovremmo essere più comprensivi verso il fatto che Trump utilizzi tutte le leve possibili per sostenere immediatamente i consumi e la produzione interna. Se, invece, ai mercati aperti e integrati si riconosce valore, quelle leve diventano un problema per gli Stati Uniti e per gli altri Paesi.
Si considerino gli ordini esecutivi di Trump sul mercato farmaceutico, una leva meno nota dei dazi ma non meno significativa. Fin dall’inizio del suo secondo mandato, Trump ha dedicato una particolare attenzione al settore sanitario in generale e farmaceutico in particolare. Dal suo punto di vista ha fatto bene, visto che negli States è il settore con il fatturato maggiore e che la spesa sanitaria e farmaceutica sono le più alte al mondo in rapporto al Pil.
In primo luogo, ha introdotto la regola della “nazione più favorita”. Mentre fino a pochi mesi fa il prezzo dei farmaci negli Usa era libero, diversamente dai nostri sistemi europei in cui è iper-regolato, ora i produttori hanno l’obbligo di allineare i prezzi lì praticati a quello più basso offerto in un gruppo di Paesi paragonabili per Pil pro capite, a meno di non raggiungere accordi individuali con l’amministrazione. Qualche giorno fa, Trump ha annunciato un nuovo accordo con alcune industrie. Inoltre, si parla di 300 miliardi di dollari di investimenti in produzione, ricerca e sviluppo per il prossimo quinquennio.
L’introduzione della regola della nazione più favorita è una reazione alle politiche di prezzo degli altri Paesi. Negli Stati, come il nostro, in cui il prezzo dei medicinali è regolato, le imprese farmaceutiche hanno potuto nel tempo negoziare un prezzo più basso con i governi, riversandone il costo sul mercato libero americano. Se la globalizzazione non vale nulla e ogni Stato va per conto suo facendo il proprio immediato interesse, Trump ha buoni motivi per dire agli americani di smettere di pagare il costo delle medicine agli europei. Il suo obiettivo è coerente con le premesse: spingere il mercato interno eliminando i sussidi esistenti, abbassando il costo per gli utenti e incentivando la produzione, in un sistema che resta comunque meno regolato del nostro.
Ma nel medio-lungo termine, un allineamento del prezzo su quello più basso potrà avere conseguenze sia negli investimenti sulla ricerca sia nel mercato del lavoro, in un settore per sua natura globale, in cui le case farmaceutiche di un continente hanno sedi di produzione e centri di ricerca anche negli altri. Inoltre, la regola del prezzo più basso potrebbe introdurre barriere all’ingresso con conseguenze sull’innovazione del settore, poiché sarebbe più facile per una multinazionale consolidata rispetto a una nuova impresa raggiungere un accordo bilaterale con l’Amministrazione. Infine, la prima componente ad essere sacrificata, a livello globale, rischia di essere la ricerca clinica sviluppata a livello industriale. Forse, mercati integrati e economie libere non sono tanto una cattiva idea.
Un abbassamento del prezzo comporterebbe, poi, specifiche conseguenze negative per le imprese e i consumatori europei. Le prime infatti sarebbero costrette ad aumentare i prezzi fuori dagli Usa o a rinunciare al mercato statunitense, che per loro costituisce una grossa fetta, per mantenerli più contenuti. Non solo: per evitare di ridurre i prezzi americani, esse potrebbero essere indotte a ritardare l’introduzione in Europa di farmaci innovativi, a detrimento dei pazienti europei. Questo rende ancora più insostenibili strumenti come il cosiddetto payback farmaceutico, introdotto in Italia nel 2012 per contenere la spesa farmaceutica “in via emergenziale” e poi rimasto nell’armamentario delle leggi di bilancio.
Per l’intera economia europea – segnala il Rapporto Draghi – il settore farmaceutico rappresenta il 5% del valore aggiunto ed è al primo posto a livello mondiale negli scambi commerciali misurati in termini di valore.
I dazi sono la punta dell’iceberg della politica economica di Trump. Bene vederli per quel che sono, ovvero un danno per tutti, ma sarebbe utile anche non sottovalutare le ulteriori iniziative dell’Amministrazione americana a sostegno dell’economia interna, per non trovarsi sorpresi quando ne vedremo gli effetti.