Dickens, il Natale e la società liberale

Il Natale che andiamo a festeggiare sarebbe meno luminoso senza la libertà e la prosperità che la società di mercato sa tutelare e promuovere.

19 Dicembre 2018

Il Corriere del Ticino

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Intorno al giorno della Natività sono state scritte molte opere che in vario modo hanno provato a richiamare l’attenzione sul significato di questo momento, chiamato a scaldare il cuore di cristiani e no. Uno dei testi più celebri si deve a Charles Dickens, che nel 1843 pubblicò un romanzo breve dal titolo Canto di Natale: un lavoro che ha riscosso subito un grande successo, anche perché ha interpretato una diffusa sensibilità avversa al capitalismo. È significativo che Carl Barks, celebre disegnatore della Walt Disney, abbia chiamato proprio uncle Scrooge quello che, in italiano, sarà ribattezzato zio Paperone.
 Al centro della narrazione di Dickens c’è un finanziere, Ebenezer Scrooge, caratterizzato dal fatto di essere senza cuore. Dominato da una cupa ossessione verso il denaro, Scrooge non conosce alcuna empatia, non mostra la minima umanità ed è incapace di generosità. Alla fine della storia Scrooge si «convertirà» proprio il giorno di Natale, comprendendo l’insensatezza della propria esistenza. Capirà insomma che la vita non può essere consacrata al mero arricchimento, ma che è giusto condividere con gli altri quanto si ha.
 Quali che siano le sue qualità letterarie, il racconto interpreta alla perfezione un filone della cultura europea radicalmente avverso alle logiche liberali. La ricchezza, che naturalmente può essere usata bene o male, qui è condannata in quanto tale, quale macigno pesantissimo che genera cattiveria ed egoismo.
 Nel commentare il testo c’è stato chi, assumendo una prospettiva controcorrente, ha richiamato l’attenzione sul fatto che se è diventato ricco sul libero mercato Scrooge può avere raggiunto tale posizione soltanto con la soddisfazione offerta ai clienti. Ma questo in linea di massima non interessa quando la libera iniziativa, la finanza e il capitalismo sono pensati quali strumenti del male.
 Il risultato è che, parlando di uomini di affari, è oggi possibile usare stereotipi che considereremmo inaccettabili in altri contesti. Qualche decennio fa, ad esempio, è stata una produzione hollywoodiana come Wall Street, diretto da Oliver Stone, a riproporre una descrizione senza sfumature del businessman quale uomo privo di scrupoli. La tesi sottesa al film è che lo spirito imprenditoriale dissolve ogni umanità e orienta all’avidità, così che il capitalista è pronto a sacrificare ogni cosa pur di avere successo.
 Interpretato da Michael Douglas, il protagonista Gordon Gekko è diventato – per molti – il finanziere per eccellenza. Secondo questa lettura, in chi fa impresa non c’è altro che avidità (greed) e un desiderio illimitato di risorse che si trasforma in machiavellismo.
 La cultura occidentale non sempre è stata così. In Aristotele e in vari altri autori la proprietà è considerata la condizione stessa della generosità. Nessuno può pensare che una vita totalmente centrata sul proprio ombelico sia degna di essere vissuta, ma l’ideologia pauperista sottesa al Canto di Natale non coglie come l’altruismo sia inseparabile da un ordine di libertà e dalla sua capacità di produrre prosperità. Fu molto efficace Margareth Thatcher quando rilevò che «nessuno ricorderebbe il buon samaritano soltanto per le sue buone intenzioni: aveva anche i soldi».
 Il moralismo avverso alla ricchezza risulta indifendibile, allora, soprattutto perché non comprende il nesso tra proprietà e libertà. Senza dubbio i soldi implicano oneri e rischi, e avere molte risorse significa farsi carico di responsabilità (si pensi, ad esempio, ai posti di lavoro di una grande impresa). Ma una prospettiva che condanni la ricchezza in quanto tale può condurre soltanto a una società dominata da un potere del tutto arbitrario. 
 Fu uno dei maggiori filosofi dell’Ottocento, Antonio Rosmini (qualche anno fa beatificato dalla Chiesa cattolica), a evidenziare come non vi sia diritto senza proprietà, né libertà senza proprietà. Solo se ognuno è tutelato in quanto ha, è possibile avere un ordine giuridico in grado di coniugare prosperità e libertà. Sarà poi papa Giovanni Paolo Il a sottolineare come «il grado di benessere del quale gode oggi la società sarebbe impossibile senza la figura dinamica dell’imprenditore».
 Perfino dietro a Scrooge, che pure è una deformazione parodistica, c’è allora un orizzonte di libertà che bisogna apprezzare. Il mercato si basa sulla creatività di chi soddisfa i consumatori e sull’innovazione di intraprese che partono dal mondo quale è oggi per rinnovarlo di continuo.
 Il Natale che andiamo a festeggiare sarebbe meno luminoso senza la libertà e la prosperità che la società di mercato sa tutelare e promuovere.

Da Il Corriere del Ticino, Mercoledì 19 Dicembre 2018.

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