8 Settembre 2025
L'Economia – Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Politiche pubbliche
Per la seconda volta, una Corte d’appello ha considerato illegittimi i dazi voluti da Donald Trump, che li ha imposti utilizzando un dispositivo emergenziale. Per ora le misure restano in vigore, in attesa dell’appello, alla Corte suprema. Forse però questo momento di incertezza dovrebbe aiutarci a ridimensionare alcune certezze.
E’ opinione diffusa che l’accordo fra Trump e l’Ue dimostri la debolezza della leadership europea. Non abbiamo «battuto i pugni sul tavolo» (locuzione che in altri tempi si utilizzava peri governi italiani, nel loro rapporto con la Commissione europea) e ne siamo usciti con le ossa rotte. Gli accordi commerciali, nel mondo di oggi, sono una faccenda complicata, soprattutto se si parla di Stati Uniti e Unione europea: si tratta dei territori più regolamentati al mondo e il linguaggio delle regole non è facile da tradurre. Tant’è che von der Leyen e Trump si sono visti in Scozia il 27 luglio e il documento ancora non esiste.
I punti critici
Il 21 agosto è stato però diffuso uno statement comune, che mette nero su bianco alcuni dei punti principali. Primo, l’Ue si impegna a «eliminare i dazi doganali su tutti i prodotti industriali statunitensi e garantire un accesso preferenziale al mercato per un’ampia gamma di prodotti ittici e agricoli statunitensi». Già dagli anni Ottanta, l’Europa ha vietato l’uso di sostanze ad azione ormonale finalizzate all’aumento della crescita negli animali da allevamento. Gli Usa ci trascinarono innanzi al Wto, che sostanzialmente diede loro ragione, chiarendo che proibizioni di questo tipo erano tollerabili solo in presenza di evidenze scientifiche robuste.
L’impenetrabilità dei mercati europei alla carne americana è rimasta una ferita aperta e, per quanto se ne sia parlato relativamente poco, per i negoziatori si tratta di una priorità. Lo statement segnala che i due blocchi lavoreranno assieme per ridurre le barriere non-tariffarie ai rispettivi prodotti, e anche in questo caso l’agroalimentare viene citato con grande rilevanza, assieme all’automotive.
Siccome il diavolo sta nei dettagli, gli americani hanno messo nero su bianco il riconoscimento, da parte nostra, che le loro produzioni implicano un rischio di deforestazione «trascurabile» così come la promessa di un’applicazione flessibile del Carbon Border Adjustment Mechanism. Quest’ultimo è il dazio verde che
l’Unione europea ha deciso di esigere, con l’obiettivo di «compensare» le emissioni inquinanti delle aziende localizzate in altri Paesi e scoraggiare dunque eventuali delocalizzazioni volte a scavalcare le normative green. La questione della deforestazione è analoga: Bruxelles ambisce a colpire Paesi che metterebbero a rischio il patrimonio faunistico e boschivo, chiudendo loro i nostri mercati. Trump parla la lingua dell’egoismo più gretto, la Commissione europea quella dei diritti e del futuro del pianeta. Ma entrambi pensano che il fine giustifichi i mezzi, cioè l’introduzione di strumenti che limitano lo scambio internazionale e agiscono per modificare i prezzi che si determinerebbero liberamente, nell’incontro fra domanda e offerta.
Nello statement, ovviamente, c’è poi quel di cui si è molto discusso: cioè l’impegno ad acquistare gas naturale dagli Usa e l’intenzione di procedere con 600 miliardi di investimenti «in settori strategici», negli Stati Uniti di qui al 2028.
Se prese alla lettera, l’una cosa e l’altra confermerebbero il fallimento di von der Leyen. La Commissione non compra direttamente energia (per fortuna) e men che meno fa investimenti diretti. Da questo punto di vista, non si può non tener conto che le imprese tedesche, francesi, irlandesi e olandesi sono rispettivamente le terze, quinte, seste e ottave che più investono negli Stati Uniti. Ci sono relazioni d’affari consolidate ed è immaginabile che la necessità di superare i nuovi ostacoli protezionistici porti ad aprire nuovi stabilimenti Oltreoceano nei prossimi anni. Il che non corrisponde necessariamente alla chiusura di impianti in Europa.
Dal punto di vista dei dazi, l’Unione ottiene le condizioni della «nazione più favorita», ovvero il 15%. A differenza di quanto sarebbe auspicabile, vale il valore più elevato: cioè il 15% è una soglia sotto la quale non si può scendere. Gli unici a essersela cavata meglio sono gli inglesi che, assieme alle isole Fiji, hanno portato a casa un dazio del 10%. Sri Lanka e Taiwan il 20%. Singapore, la Moldova, Malesia e Messico il 25%, il Sud Africa il 30%, la Serbia il 35%, il Myanmar il 40%. La Svizzera, la cui Presidentessa è stata molto lodata (fuori dal suo Paese) come antagonista di Trump, il 39%. Come il Laos (40%).
Sembra veramente crudele che Paesi dove gli americani hanno già fatto notevoli disastri, come Iraq o Libia, abbiano le loro poche esportazioni gravate di un dazio rispettivamente del 35 e del 40%. Israele, nonostante la consanguineità dei governi Trump e Netanyahu, ha anch’esso un dazio del 15%.
Quali ripercussioni
Ovviamente, non è detto che vada a finire così. Un dazio del 15% può avere conseguenze rilevanti su beni di consumo dal prezzo relativamente modesto: come una lattina di birra Immaginiamo davvero che non ci saranno contraccolpi? Che il livello di tassazione delle importazioni negli Stati Uniti resterà il medesimo? Che i consumatori davvero non diranno nulla, al constatare l’aumento dei prezzi? Non è detto, come non sappiamo come andrà a finire la partita alla Corte suprema. Perciò su molte cose, inclusa la performance dei nostri negoziatori, per ora è opportuno sospendere il giudizio.